venerdì 27 luglio 2012

Quando la Via Lattea viene scambiata per delle nuvole

La Via Lattea da Forca Canapine
Ho avuto la fortuna di passare un fine settimana sotto l'incantevole cielo di Forca Canapine, tra l'Umbria e le Marche, a circa 1500 metri di quota e posso dire di aver scoperto l'Universo per la seconda volta.
Sapevo che un cielo scuro, non contaminato dalle luci artificiali, fosse magnifico, ma non avevo mai saputo quantificare in emozioni questa parola, fino a quando non l'ho visto con i miei occhi per la prima volta.
Con una Via Lattea scolpita che sembrava la solita catena di nuvole pronte a rovinare la già dura vita degli appassionati del cielo, ho finalmente compreso quanto siano dannose quelle maledette luci che illuminano verso l'alto le nostre città, privandoci di quelle stelle che hanno il potere di farci sognare e dimenticare le piccole questioni di una società che è il nulla rispetto all'Universo.
Non potrò mai riuscire a descrivere con le parole, quello che i miei occhi hanno catturato. Posso limitarmi a mostrarvi una foto che spero possa trasmettervi la voglia di spostarvi dai lampioni ed ammirare, almeno una volta nella vita, un cielo davvero scuro.
Abbiamo tanto da imparare dallo spettacolo dell'Universo: è sempre presente, in ogni momento, ed è gratis.


martedì 17 luglio 2012

Scoprire una cometa: tecnica ed emozioni


Scoprire una cometa rappresenta probabilmente una delle soddisfazioni più grandi per tutti gli appassionati di astronomia perché il vostro nome, meglio, il cognome, sarà indissolubilmente legato ad un corpo celeste che probabilmente continuerà a muoversi tra i pianeti per decine di milioni di anni.
Purtroppo la ricerca di comete è probabilmente il campo nel quale è maggiore la concorrenza, sia amatoriale che, soprattutto, professionale.
Fortunatamente i grandi programmi di ricerca automatizzati non scandagliano tutti i giorni tutta la volta celeste, lasciando un piccolo spazio anche per le scoperte amatoriali, almeno un paio l’anno per quanto riguarda le comete.

Come si scopre però una cometa e quali sono le emozioni e le tappe da seguire per vedersi affidare la paternità di una di queste piccole palle di neve sporca, così spettacolari quando si avvicinano al Sole?

La tecnica da seguire è relativamente semplice: bisogna scandagliare una zona di cielo non troppo lontana dall’eclittica e in prossimità del Sole. Sebbene le comete possano trovarsi anche a grandi distanze dalla nostra stella, solamente quando si avvicinano diventano abbastanza brillanti per essere viste.
La difficoltà del lavoro è principalmente nella pazienza e nella costanza. Ogni giorno bisogna scandagliare una porzione di cielo più grande possibile con il proprio telescopio a partire dall’orizzonte fino a circa 40-50° di distanza dal Sole. La procedura va ripetuta la sera dopo il tramonto (in questo caso si osserverà verso ovest) o la mattina a cominciare da due ore prima dell’alba (quindi verso est). E’ molto importante scandagliare il cielo con metodo: preparatevi un percorso semplice da seguire ed annotate scrupolosamente le coordinate di ogni campo inquadrato. Sarebbe veramente una beffa atroce trovare qualcosa e non riuscire a capire dove si trovava nel cielo!
La porzione di cielo va osservata o ripresa almeno due volte (meglio tre) nell’arco della sessione osservativa, a distanza di circa mezz’ora dal primo passaggio.
Questa procedura è fondamentale per riconoscere un’eventuale cometa dalle stelle di sfondo e dalla miriade di oggetti diffusi dello spazio profondo (nebulose, galassie) a causa del suo veloce movimento.

Le comete vengono scoperte quando sono estremamente deboli, quindi se fate la ricerca visualmente, dovete usare telescopi di buon diametro (almeno 25 centimetri) sotto un cielo scuro. Non aspettatevi di vedere un astro brillante con una lunga coda. Quello che dovete cercare è un piccolo batuffoletto di luce quasi indistinto che lentamente nel corso del tempo si sposta tra le stelle di fondo.
Se utilizzate la tecnologia digitale, le cose si semplificano perché non sono richiesti necessariamente telescopi di grande diametro, si ottengono immagini oggettive e più profonde e, cosa non da poco, la procedura di scansione del cielo può essere automatizzata.
E’ molto più semplice anche riconoscere le coordinate dei campi ripresi e analizzare i dati: alcuni software infatti provvedono automaticamente all’analisi avvertendo l’utente nell’eventualità che un oggetto si è spostato tra le stelle.
Tenete presente che per scoprire una cometa in genere sono richieste statisticamente almeno 1000 ore di osservazioni continuative nel tempo (se siete fortunati!).
Al di là delle tecniche, che potete approfondire con una veloce ricerca in internet, cosa si prova a scoprire una cometa e cosa fare in questa eventualità?
Non posso aiutarvi in questa occasione, perché purtroppo non ho ancora avuto il piacere di una scoperta di questo tipo (a dire la verità non ci ho neanche provato!).

A tal proposito, forse è meglio ascoltare il racconto di un astrofilo che nel febbraio 2012 ha avuto il piacere di scoprire una cometa. Il suo nome è Fred Bruenjes, vive negli Stati Uniti e passa ogni notte serena ad osservare il cielo. 

Queste sono le parole della serata astronomica più importante della sua vita.

Venerdi 10 febbraio 2012 sembrava proprio la notte perfetta per la scoperta di una cometa da parte di un astronomo dilettante. Mi sentivo davvero motivato nell’iniziare la sessione di osservazioni, anche perché le condizioni erano perfette. Il freddo probabilmente aveva scoraggiato molti astrofili e la Luna quasi piena sicuramente contribuiva a rendere meno agguerrita la concorrenza, soprattutto quella delle grandi survey professionali.
Avevo a disposizione solamente una o due ore prima che la Luna sorgesse e riducesse quasi a zero le possibilità di scoprire oggetti deboli, ma un’ora per me è più che sufficiente per scandagliare circa 270° quadrati di cielo con una magnitudine limite di circa 16.
Ho messo in funzione il mio sistema di ripresa e acquisizione delle immagini, ormai collaudato, e me ne sono andato a guardare un po’ di tv mentre il telescopio acquisiva (o avrebbe dovuto acquisire) le immagini.
Dopo un’ora sono tornato per controllare e con grande sconforto ho visto che la camera di ripresa, una reflex Canon 5D, si era bloccata ed aveva perso tutte le immagini acquisite.
Il mio morale era a terra: una delle poche notti favorevoli irrimediabilmente compromessa da questo imprevisto problema.
L’unica cosa che volevo fare in una situazione del genere era chiudere l’osservatorio, anche perché la Luna stava ormai per sorgere.
L'immagine di scoperta di una probabile cometa
Poi ho ricordato a me stesso che non puoi trovare qualcosa se non la cerchi, così mi sono fatto coraggio ed ho riavviato il sistema. Questa volta tutto ha funzionato a dovere ed ho effettuato riprese per circa due ore, poi con la Luna ormai invadente ho deciso di arrendermi.
Chiuso l’osservatorio mi sono messo subito ad analizzare le immagini riprese. Per questo scopo utilizzo un software molto potente chiamato Visual Pinpoint. Il programma riconosce automaticamente il campo inquadrato e confronta le immagini della stessa area celeste per vedere se nell’intervallo di tempo qualche corpo celeste si è spostato.
Non mi aspettavo molto a dire la verità, ancora scoraggiato dal problema avuto con la fotocamera, ma ad un certo punto il programma mi segnale due immagini nelle quali sembrava esserci un piccolo batuffolo indistinto estremamente debole che si muoveva rispetto alle stelle in linea retta.
Il movimento regolare e la forma caratteristica ricordavano quella di una debole cometa, ma anche in questo caso 999 volte su 1000 il corpo celeste è già conosciuto oppure appena scoperto da qualche altro osservatore (a volte le scoperte si assegnano sul filo dei minuti).
In ogni caso valeva sicuramente la pena fare un controllo. Inserendo le coordinate del batuffolo di luce nella pagina del Minor Planet Center dedicata alla ricerca di comete conosciute, con mia grande sorpresa non trovavo alcun risultato. Stesso esito con una ricerca manuale nelle zone adiacenti le coordinate stimate del corpo celeste. Nessuna cometa doveva trovarsi in quella posizione!
A questo punto le chance di aver scoperto una nuova cometa cominciavano ad essere leggermente superiori, ma non potevo ancora cantar vittoria. In questi casi bisogna sempre pensare a tutte le possibili spiegazioni alternative all’ipotesi più difficile che purtroppo è anche la più piacevole: aver effettivamente scoperto una nuova cometa.
Il successivo controllo ha riguardato la ricerca di tutti gli asteroidi conosciuti nelle vicinanze. Magari uno di questi avrebbe potuto mostrare una debole attività cometaria, come non di rado succede alle famiglie che orbitano nei pressi di Giove.
Nella regione ripresa si trovavano effettivamente molti asteroidi deboli, ma nessuno di essi si muoveva verso ovest come quel fioco batuffolo, e sicuramente le rocce spaziali non fanno inversioni ad U improvvise!
A questo punto la situazione stava diventando davvero emozionante. Chiamai la mia migliore metà, mia moglie Jen, esperta astrofotografa, per darmi un parere sulle mie immagini. Senza alcun dubbio, prima ancora che le indicassi quale fosse il corpo celeste incriminato, esclamò: “quella è una cometa!”
Questo era il momento più delicato: cuore ed emozioni stavano prendendo il posto alla razionalità, ma non era ancora il momento. Quel piccolo batuffoletto così debole e sgranato poteva essere spiegato ancora in diversi modi, senza scomodare la scoperta di una nuova cometa.
Ripresi le immagini grezze e controllai se poteva trattarsi di un riflesso o un artefatto introdotto dal sensore della mia reflex. Tutto però sembrava confermare la natura reale del piccolo corpo celeste. Anche la colorazione verdastra era compatibile con la tipica tonalità della chioma di una cometa. Tutto questo era davvero molto incoraggiante!
Controllai l’eventuale presenza di satelliti o stadi esauriti di razzi lanciati in quelle ore, ma la ricerca, fortunatamente, diede esito negativo.
A quel punto stavo seriamente prendendo in considerazione l’eventualità di una cometa. Quando tutte le ipotesi più probabili sono state escluse, quello che resta, anche se altamente improbabile, deve essere la spiegazione giusta.
Per avere la conferma definitiva avrei dovuto riprendere l’ oggetto la sera successiva; per fare questo era necessario capire in che punto del cielo l’avrei ritrovato a distanza di 24 ore.
Il sito del Minor Planet Center ha uno strumento molto utile che consente di predire il percorso di un corpo celeste a partire da poche osservazioni.
Inserite le mie osservazioni, ricevetti un messaggio alquanto strano: “L’oggetto si muove piuttosto rapidamente, dovresti probabilmente segnalarlo…immediatamente!” Ci mancava anche un sito che fa della prudenza e delle conferme indipendenti la sua bandiera a far confusione con le mie emozioni! No, non era ancora il momento di segnalare l’oggetto; dovevo essere sicuro che si trattava di una nuova cometa attraverso un’osservazione di conferma nella nottata seguente, non volevo di certo far cercare fantasmi a costosi telescopi professionali!
Per calcolare la traiettoria del corpo celeste decisi quindi si procedere manualmente aiutandomi con un foglio di calcolo elettronico (Excel).
Passai le seguenti 18 ore (compresa la notte) a controllare di nuovo tutte le immagini e le misurazioni, cercando di capire se ci fosse una spiegazione alternativa che mi era sfuggita nella concitazione di quei primi momenti e se l’oggetto, supposto reale, fosse stato già scoperto e catalogato.
Finalmente scese di nuovo la notte, o meglio, il crepuscolo, visto che non sono riuscito ad aspettare il buio completo dopo il tramonto del Sole.
L'immagine ottenuta la serata seguente conferma la scoperta
Speranzoso e allo stesso tempo spaventato di non ritrovare più quel batuffolo di luce, ho subito puntato la posizione stimata dove avrebbe dovuto trovarsi: il momento della verità era finalmente arrivato. Se il corpo celeste c’era ed aveva caratteristiche simili, allora poteva effettivamente trattarsi di una nuova cometa da comunicare a chi di dovere.
Il chiarore del crepuscolo introdusse un lungo momento di patos che mi sarei sinceramente risparmiato. Il cielo era infatti ancora tropo chiaro per mostrare un oggetto così debole.
Mano a mano che la notte avanzava inesorabile il campo inquadrato si riempiva di stelle e il cuore batteva sempre più forte. Ad un certo punto nell’ultima immagine scaricata cominciai a vedere poco oltre la soglia del rumore un oggetto diffuso e indistinto che non era riportato negli atlanti stellari.

Ho aspettato con trepidazione l’immagine successiva per avere la conferma che proprio lì, al centro del campo, si trovava quel punto indistinto di color veder, proprio come nella serata precedente! Wow, non ci potevo credere, era esattamente nel punto che avevo calcolato; questa cosa è davvero reale!
E’ in questo momento che la ricerca di una vita, condotta con passione e speranza durante notti insonne e spesso fredde, viene ripagata con una soddisfazione tanto più grande quanto maggiori sono stati gli sforzi per raggiungerla.
Avevo effettivamente appena raggiunto uno dei traguardi più importanti della mia vita!
Con il cuore gonfio di felicità ripresi altre immagini e spesi le ore successive ad organizzare le osservazioni che avrei poi mandato al CBAT del Minor Planet Center.
La mia speranza era che le osservazioni fossero sufficienti per far inserire l’oggetto nella lista dei NEO (corpi celesti vicini alla Terra) in modo da dare la possibilità ad altri osservatori di fare nel minor tempo possibile le doverose conferme (o smentite!).
Appena cinque minuti dopo aver inviato il report, la piccola cometa era già apparsa sulla pagina principale dei corpi da confermare. Il mio lavoro era terminato; potevo rilassarmi leggermente aspettando l’annuncio ufficiale della scoperta.
In quel momento, dopo due giorni insonni, l’adrenalina mi lasciò la possibilità di addormentarmi pensando a chi avrei raccontato per primo l’incredibile storia di questa scoperta.

Il 12 febbraio, appena  un giorno dopo il report di Bruenjes, la cometa fu ufficialmente designata con la sigla C/2012 C2 (Bruenjes). Questo è il coronamento del sogno di Fred Bruenjes, astrofilo che con un telescopio Schmidt-Cassegrain da 36 centimetri, una reflex digitale (non una camera CCD astronomica) e senza alcun complicato sistema di autoguida, ha un oggetto celeste in viaggio tra i pianeti del Sistema Solare che porta il suo nome. 

L'orbita della cometa C/2012 C2 Bruenjes
Complimenti a Fred Bruenjes per la caparbietà e la passione. Qui trovare il suo sito internet e la storia completa: http://www.moonglow.net/ccd/comet/index.html

Per approfondire il tema della scoperta delel comete, consiglio il sito del Minor Planet Center: http://www.minorplanetcenter.org/iau/mpc.html

domenica 15 luglio 2012

Online test di una montatura equatoriale molto promettente

L'innovativa montatura Italiana M-uno
Qualche mese fa ho avuto la fortuna di testare per la rivista Coelum una montatura equatoriale dalla meccanica totalmente italiana e dal design veramente innovativo prodotta dalla giovane azienda Avalon, e distribuita dalla UnitronItalia, il cui proprietario, Luciano Dal Sasso, è una delle persone più appassionate e preparate che si possano avere il piacere di incontrare.
Ho potuto testare e stressare la montatura per diverse settimane in piena libertà, provandola con diversi strumenti e in diverse configurazioni ottiche.
I risultati sono stati ottimi;
Oltre ad essere un oggetto esteticamente molto bello, è incredibilmente trasportabile, facile da utilizzare e preciso, tutti ingredienti indispensabili per coloro che si dilettano a fare fotografie astronomiche a lunga esposizione e hanno l'esigenza di spostarsi alla ricerca di cieli bui.
Non mi dilungo ulteriormente e vi lascio con una delle immagini scattate a circa 2,3 metri di focale e soprattutto al test completo che potrete liberamente scaricare in formato PDF a questo link

La nebulosa testa di cavallo. Media di 7 immagini da mezz'ora ciascuna

lunedì 9 luglio 2012

C'era o no acqua liquida su Marte?


Il mistero più affascinante di Marte ruota attorno alla presenza o meno di acqua nel suo passato e nel presente.
I dati ricevuti dalle prime sonde giunte sul pianeta, tra cui le gloriose Viking, hanno sollevato un problema di cui ancora se ne discute animatamente a distanza di oltre 30 anni. 
Un grande antico fiume su Marte?
Le immagini provenienti dalla superficie e dall’orbita hanno raccolto numerosi indizi sul fatto che il pianeta un tempo fosse estremamente diverso dall’arido deserto attuale.
Oltre alle peculiari proprietà dell’emisfero nord, che potrebbero essere spiegabili anche con un gigantesco impatto che avrebbe rimodellato la superficie, nel dettaglio il suolo marziano è percorso da quelli che sembrano resti di decine di fiumi e grandi laghi, come quello riportato nell’immagine a sinistra.
Se infatti confrontiamo queste immagini con le situazioni familiari e più conosciute della Terra, gli indizi potrebbero addirittura trasformarsi in prove evidenti.
Un fiume che scorre per lungo tempo nel suo letto modella la superficie, leviga le pietre, scava il terreno, muove la sabbia, genera valli e canyon. Molte sono le formazioni di questo tipo scoperte dalle sonde in orbita. 
Il fatto che attualmente non vi sia acqua in questi probabili antichi letti, alcuni dei quali davvero giganteschi, è ciò che impedisce agli scienziati di essere certi della loro origine. 
Perché così tanta incertezza?
Sostanzialmente perché la nostra analisi si basa solamente su una somiglianza visiva con le strutture geologiche che sulla Terra sono formate dallo scorrere dell’acqua. Siamo proprio sicuri, però, che non potrebbero esserci altri motivi, che attualmente ignoriamo, per cui su Marte si siano formate strutture simili, senza dover per forza di cose considerare l’azione erosiva prodotta dal nostro familiare liquido trasparente?
La prudenza resta d’obbligo anche guardando un’immagine apparentemente eloquente come quella precedente, per un motivo molto semplice: le condizioni di pressione e temperatura sul suolo marziano attualmente impediscono all’acqua pura di esistere stabile allo stato liquido. 
Presso i poli è congelata, alle basse latitudini può esserci solo sottoforma di vapore.
Ammettere che quelle strutture siano letti di antichi fiumi, significa quindi implicare che un tempo l’atmosfera del pianeta rosso fosse profondamente diversa, tanto da consentire all’acqua di scorrere liberamente e in grandi quantità.
Uno scenario del genere solleva, proprio come la polvere alzata dalle tempeste marziane, molte altre domande: come si è modificata l’atmosfera? Perché è cambiata così tanto? E dove è finita tutta l’acqua?
Difficile ancora mettere insieme i pezzi di un puzzle davvero estremamente più complicato di quanto si potesse pensare, anche perché molte delle analisi necessarie per confermare o confutare la teoria devono essere fatte sul luogo.
Fino a questo momento sono stati trovati degli indizi, alcuni a dire la verità davvero forti.
Il rover Opportunity ha trovato rocce sedimentarie, che sulla Terra si formano solamente in presenza di acqua.
La sonda Phoenix ha confermato che alle alte latitudini il terreno è pieno di ghiaccio d’acqua.
Lo strato di permafrost, così viene chiamato il suolo perennemente ghiacciato, potrebbe contenere una riserva grandissima di acqua, tale da ricoprire buona parte dell’emisfero nord del pianeta se diventasse liquida.
Le osservazioni delle sonde in orbita attorno al pianeta, in particolare quelle di Mars Odyssey, hanno mostrato che senza la protezione del campo magnetico l’atmosfera del pianeta rosso si sta lentamente disperdendo nello spazio a causa dell’azione erosiva del vento solare.
Questa osservazione è fondamentale, perché se riuscissimo a campire il ritmo con cui l’atmosfera evapora e la sua eventuale stabilità nel tempo, potremmo dare forza alla teoria secondo cui l’antico inviluppo atmosferico del pianeta fosse molto diverso da quello attuale. Se l’atmosfera era più spessa e calda, le grandi quantità d’acqua che ora si trovano nel sottosuolo potevano formare laghi ed oceani in superficie. E a quel punto la vita avrebbe potuto popolare il pianeta...

Non resta che aspettare l'arrivo della missione Curiosity, previsto per il prossimo Agosto, e sperare che venga fatta maggiore luce su uno dei misteri più interessanti ed intricati di Marte.

sabato 7 luglio 2012

Ricerca astronomica senza telescopio!

Dal mio ultimo libro: Astrofisica per tutti. Scoprire l'Universo con il proprio telescopio
 
Nell’epoca della globalizzazione e della rete internet che può collegare le più disparate persone sparse su ogni angolo del pianeta, è possibile fare ricerca astronomica standosene comodamente seduti sul divano senza dover comprare alcuno strumento astronomico.
I cosiddetti progetti di calcolo distribuito sfruttano il grande numero e l’elevata potenza dei moderni personal computer, nonché la passione degli amanti dell’astronomia, per elaborare una mole di dati che altrimenti richiederebbe secoli ai pochi astronomi sparsi sulla Terra.

Il SETI è stato il primo progetto di calcolo distribuito
Il primo progetto di questo tipo riguarda il SETI, un programma molto ambizioso per l’individuazione di eventuali segnali radio di natura artificiale provenienti da altre stelle.
Il programma SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence) portato avanti dall’università di Berkeley, negli anni 90 è stato il pioniere della rivoluzione del calcolo distribuito.
Gli astronomi erano infatti ben coscienti che la quantità di dati raccolta dai potenti radiotelescopi era ben al di là delle capacità dei loro supercomputer, così idearono un software, denominato SETI@home (http://setiathome.berkeley.edu/) che funzionava su qualsiasi personal computer, si collegava alla rete e silenziosamente in sottofondo analizzava i dati raccolti dalle antenne del SETI.
Il successo di questa iniziativa fu spettacolare.
Nel corso di pochi anni milioni di computer sparsi in tutto il mondo analizzavano quantità incredibili di dati.
Il punto di forza di questo primo esperimento di calcolo distribuito era da attribuire sostanzialmente alle proprietà del programma creato dagli astronomi dell’università di Berkeley: il software poteva funzionare su qualunque computer come se fosse uno screen saver e analizzava in modo completamente automatico i dati. Una volta terminata la “work unit” assegnata, la inviava automaticamente ai server di Berkeley e contemporaneamente scaricava un nuovo pacchetto dati.
Sebbene si tratti di un modo passivo di fare ricerca astronomica (l’utente non può intervenire ma presta solamente una piccola frazione della potenza di calcolo del suo computer), l’idea di aver contribuito ad un progetto di ricerca così ambizioso come la ricerca di segnali intelligenti nell’Universo ha creato una community appassionata e molto unita, nonché regalato piccole soddisfazioni personali.

Personalmente ho contribuito al progetto SETI@home quando ero ancora poco più che bambino e trovavo una soddisfazione enorme semplicemente nel vedere i dati elaborati mano a mano dal mio computer e il successivo invio del mio personale pacchetto di dati. A volte sentirsi partecipi di un grande progetto è ciò che può rendere migliori le nostre giornate. 

Il progetto SETI@home è ancora attivo, quindi chiunque può partecipare.
In questi ultimi anni non è di certo però restato l’unico progetto di calcolo distribuito o della cosiddetta “internet-science” (scienza attraverso internet). Da questa esperienza sorprendentemente positiva nel giro di pochi anni sono nati altri progetti di ricerca astronomica. 
Attualmente il calcolo distribuito rappresenta un aiuto insostituibile in alcuni ambienti della ricerca che senza il prezioso aiuto degli appassionati non sarebbero potuti andare avanti.

Se le prime esperienze non prevedevano l’intervento dell’utente, nei progetti successivi il fattore umano è stato invece valorizzato ed utilizzato per progetti altrettanto ambiziosi.
Il più conosciuto ed importante è stato il programma galaxyzoo (http://www.galaxyzoo.org), un portale internet nel quale agli utenti, previa una registrazione gratuita ed un piccolo test d’ingresso, venivano sottoposte milioni di bellissime immagini di galassie non ancora classificate dagli astronomi professionisti (e neanche mai viste).
Il pannello di controllo del progetto Galaxyzoo
Gli utenti dovevano riconoscere alcune proprietà semplici, come la forma (ellittica o a spirale), l’inclinazione (viste di profilo o di faccia)  ed il senso dell’orientazione degli eventuali bracci (orario o antiorario). Questo programma mirava a conoscere le proprietà dell’intera classe galattica dell’Universo attraverso l’analisi di un campione statisticamente valido, che solamente attraverso il contributo di migliaia di utenti si sarebbe potuto realizzare.
Attualmente il programma è ancora in attività e in continuo sviluppo. Le fasi successive hanno previsto l’approfondimento della classificazione delle galassie con domande ancora più specifiche ai 250000 partecipanti attivi.

Il successo di questa versione avanzata di calcolo distribuito superò ogni aspettativa, sia dal punto di vista della partecipazione che dell’accuratezza delle analisi, a testimonianza che a volte la passione è un motore più che sufficiente per contribuire con successo a molti progetti di ricerca.

Gli altri progetti ancora attivi ai quali potete partecipare sono elencati di seguito:
1)      Stardust@home: http://stardustathome.ssl.berkeley.edu/ . Nel 1999 la sonda della NASA stardust lasciò la Terra per visitare la cometa Wild 2. Volando all’interno della sua coda, la sonda, grazie ad una specie di racchetta fatta di un materiale particolare (aerogel) ha raccolto alcuni campioni che nel 2006 sono tornati sulla Terra in una capsula speciale. Il progetto Stardust@home sottopone agli utenti delle immagini riprese al microscopio del materiale di raccolta dei campioni.
Il compito è quello di individuare tutti i minuscoli granelli di polveri cometarie presenti per consentire agli astronomi di estrarli e condurre delle analisi.
La quantità di polvere cometaria raccolta è infatti esigua rispetto alla superficie totale della “racchetta”, concentrata in particelle microscopiche; la loro individuazione da parte di un singolo scienziato richiederebbe secoli, mentre con l’aiuto di migliaia di occhi è possibile accelerare moltissimo il procedimento di individuazione. Il progetto, iniziato nel 2006 è ancora attivo; chiunque può partecipare.

2)      Systemic: http://oklo.org/ . La ricerca dei pianeti extrasolari è una branca molto sviluppata dell’astronomia moderna.
Rilevare un pianeta extrasolare è però molto difficile, come abbiamo già accennato. Il metodo che offre migliori risultati è quello delle velocità radiali, ma spesso i risultati non sono chiari, soprattutto quando osserviamo sistemi planetari con più di un pianeta. Il progetto sistemi attraverso una console di comando mette a disposizione dell’utente una console nella quale si può simulare l’andamento delle curve di velocità radiali cambiando alcuni parametri (massa della stella, inclinazione dell’orbita, massa e numero dei pianeti). Le curve di velocità radiale così simulate vengono sovrapposte a quelle reali. La curva simulata che meglio approssima l’andamento reale identifica con buona probabilità le proprietà del sistema planetario extrasolare (numero di pianeti, masse, distanze dalla stella). Il progetto è forse quello più impegnativo perché richiede una certa pratica soprattutto con la console di comando ed i parametri da modificare, ma è senza dubbio affascinante

3)      Einstein@home: http://einstein.phys.uwm.edu/ . Uno degli obiettivi della moderna astrofisica è la rilevazione delle onde gravitazionali, teorizzate dalla relatività generale di Einstein ma mai finora rilevate. Il modo migliore per misurare l’effetto di un’onda gravitazionale è quello di studiare sorgenti astrofisiche molto particolari, quali pulsar, buchi neri e sistemi di stelle di neutroni. Prima di rilevare quindi un’onda gravitazionale, è meglio sapere dove guardare, scoprendo il maggior numero possibile di queste sorgenti. Il progetto Einstein@home ha questo duplice scopo. I dati provenienti da diversi strumenti, tra cui i radiotelescopio di
Arecibo, il satellite a raggi gamma Fermi e il rilevatore di onde gravitazionali LIGO, vengono fatti elaborare agli utenti attraverso un programma che funziona in modo simile al progetto SETI@home, che quindi non prevede l’intervento degli utenti ma solamente la condivisione di una piccola parte della potenza di calcolo dei personal computer. Nato nel 2005 è ancora in piena fase di sviluppo. Fino a questo momento ha portato alla scoperta di diverse pulsar e stelle di neutroni, ma ancora non si sono rilevate onde gravitazionali.

Altri programmi di calcolo distribuito sono al momento in fase di preparazione. Vale la pena citare Planetquest, dedicato alla ricerca dei pianeti extrasolari in transito.
Questa rivoluzione nel modo di fare ricerca è iniziata in ambito astronomico ma ormai è portata avanti anche in altre discipline, tra cui la medicina, matematica, chimica, biologia.
Per lo sviluppo e la distribuzione dei progetti di calcolo distribuito è stata sviluppata una piattaforma oper-source (liberamente scaricabile) denominata BOINC. Il software può essere installato su tutti i computer a prescindere dal sistema operativo ed è l’interfaccia di molti progetti astronomici e non, tra cui il SETI e l’appena nato orbit@home per lo studio degli effetti degli impatti asteroidali sulla Terra. I progetti che è possibile scegliere da questa piattaforma sono diverse decine e spaziano dalla criptografia alla chimica:

Tornando in tema astronomico, ma uscendo dal filone del calcolo distribuito, vale la pena citare un altro progetto di ricerca che è possibile effettuare autonomamente senza l’ausilio di un telescopio: la scoperta di nuove comete.
La sonda Soho, in orbita attorno al Sole da molti anni, monitora la corona solare con camere a grande campo. Spesso capita di osservare piccole comete non conosciute avvicinarsi al nostro astro che possono essere avvistate solamente dalle immagini della camera a bordo della Soho.
In circa 16 anni di attività sono oltre 1000 le piccole comete scoperte dalla sonda e moltissime sono state segnalate per prime dagli appassionati che visualizzano in tempo reale le immagini inviate a Terra dalla sonda e pubblicate sul sito della NASA: http://sohowww.nascom.nasa.gov/data/realtime/c3/512/ .
Sebbene la scoperta non poterà il vostro nome, è comunque divertente e rilassante veder scorrere le immagini alla ricerca di una piccola scia in avvicinamento al Sole. 

giovedì 5 luglio 2012

Le onde gravitazionali: cosa sono e come si misurano


Questo articolo è ormai datato. Leggine uno più recente che riporta anche la prima rivelazione delle onde gravitazionai!


Nel 1916 Albert Einstein terminò la stesura della teoria della relatività generale, a completamento di un lavoro iniziato oltre 10 anni prima con l’enunciazione della teoria della relatività speciale.
Come suggerisce la parola stessa, la teoria della relatività generale considera tutti i sistemi di riferimento, compresi quelli non inerziali, inizialmente tenuti fuori dall’enunciazione della relatività ristretta.
La complessità dell’argomento non mi permette di trattarlo in queste pagine, dedicate invece alla sfida, tutta tecnologica, nel rilevare un particolare tipo di onde previste da Einstein, ma ancora mai osservate direttamente a causa di evidenti limiti tecnologici.
Due pulsar in stretta rotazione generano onde gravitazionali
La ricerca delle onde gravitazionali è uno dei campi dell’astrofisica su cui si sono investite maggiori risorse, la cui scoperta potrebbe rivoluzionare e migliorare moltissimo le nostre conoscenze dell’Universo.
Ma andiamo per gradi, cercando di capire cosa sono le onde gravitazionali e successivamente cercare di sviluppare dei modi per poterle rilevare.


La teoria dell’elettromagnetismo ci suggerisce che le variazioni del campo elettrico prodotto da una carica in oscillazione generano un campo magnetico a sua volta variabile.
I valori del campo elettrico e magnetico variabili si propagano nello spazio alla velocità della luce, dando origine alle onde elettromagnetiche, che possiamo considerare come l’informazione che ci arriva dallo stato della particella carica che ha generato queste variazioni.
Un campo elettrico statico si propaga anche esso a velocità della luce, ma non vi è informazione variabile nel tempo, quindi non si ha la creazione di un’onda (che per definizione è un fenomeno variabile e periodico).
Considerando questo punto di vista sulle onde elettromagnetiche, possiamo ipotizzare che esista un’altra famiglia di onde, chiamate onde gravitazionali.
Senza indagare le questioni fisiche riguardanti la gravitazione, possiamo fare un parallelismo tra la forza gravitazionale nella descrizione classica di Newton e quella del campo elettrico.

Ogni oggetto dotato di massa produce una forza di gravità.
Secondo Einstein nessuna informazione può viaggiare più veloce della luce, ergo la stessa informazione sulla forza di gravità di ogni oggetto non può che viaggiare al massimo alla velocità della luce.
In altre parole, se per assurdo dovesse comparire una stella ad una distanza di 10 anni luce in questo preciso momento, noi vedremmo le onde elettromagnetiche emesse tra 10 anni e sentiremmo la sua presenza gravitazionale tra altrettanto tempo.
Questa è una curiosità alla quale magari nessuno di voi aveva pensato, ma non è il fulcro del nostro ragionamento.
Immaginiamo ora (idealmente) di prendere un oggetto molto massiccio, concentrato e totalmente neutro, come una stella di neutroni, e di farlo oscillare attorno ad una posizione di equilibrio, proprio come di soluto si fa con una carica per provare e caratterizzare l’esistenza delle onde elettromagnetiche.
In questo caso il corpo è elettricamente neutro, quindi non si avrà la produzione di onde elettromagnetiche. Tuttavia, se al posto del campo elettrico consideriamo il campo gravitazionale, possiamo notare una forte analogia con il caso della carica. In particolare, l’oscillazione della stella di neutroni produce delle variazioni periodiche nell’intensità del campo gravitazionale in un punto qualsiasi fissato, che cambiano con una frequenza uguale a quella dell’oscillazione.
In un punto fissato dello spazio un osservatore noterà che i valori del campo gravitazionale della sorgente cambiano in modo periodico nel tempo.
Abbiamo effettivamente trovato un modo per generare un’onda gravitazionale.
Siamo arrivati, senza formule ma con un semplice ragionamento, ad uno dei concetti più importanti della fisica e dell’astrofisica contemporanea: la variazione di un campo gravitazionale da vita ad un’onda gravitazionale.
Un tale tipo di onda altri non è che l’informazione sul valore di un campo gravitazionale variabile che si propaga nello spazio-tempo, esattamente come un’onda elettromagnetica (per ora; tra poco vedremo che in realtà le cose sono leggermente diverse).
Fantastico: oltre alle onde elettromagnetiche lo spazio è pervaso anche da onde gravitazionali, che ci danno informazioni sul comportamento di tutti gli oggetti il cui campo gravitazionale per qualche ragione (oscillazioni, esplosioni, rotazioni, asimmetrie) varia nel tempo.


La ricerca delle onde gravitazionali è in corso sin dagli anni 60, ma fino ad ora, oltre a qualche prova indiretta, non si è mai trovata la cosiddetta “pistola fumante”, ovvero non si è mai misurata un’onda gravitazionale direttamente.
Quale è il motivo di queste difficoltà tecniche? Sostanzialmente la grande debolezza della forza di gravità.
In effetti diventa impossibile costruire in laboratorio oggetti abbastanza massicci da produrre un campo gravitazionale talmente forte da generare onde gravitazionali misurabili dagli attuali strumenti.
Molto più semplice risulta studiare quella moltitudine di fenomeni violenti ed esotici continuamente prodotti dall’Universo.
Quali possono essere questi fenomeni?
Candidati ideali per questo scopo sono i sistemi doppi estremamente stretti, magari formati da stelle esotiche, come le pulsar, o da buchi neri, oppure l’esplosione di stelle come supernovae e la conseguente creazione di stelle di neutroni o buchi neri.

Un sistema doppio molto stretto formato da due stelle di neutroni sul punto di fondersi ruota con un periodo anche superiore alle 100 volte al secondo. Di conseguenza, la frequenza delle onde gravitazionali emesse sarà dello stesso ordine di grandezza (per la precisione è doppia, visto che una rotazione completa è osservata come una doppia oscillazione).
Un’onda gravitazionale di frequenza pari a 100 Hz (100 oscillazioni al secondo) ha una lunghezza d’onda di circa 3.000 km, davvero enorme e molto difficile da misurare anche perché di intensità estremamente debole.

Per capire bene come sia possibile rilevare le onde gravitazionali, dobbiamo necessariamente tirare in ballo alcuni punti cardine della teoria della relatività generale di Einstein e scoprire certe proprietà particolari. Non vi spaventate, non ci sarà nessuna formula, promesso!
La teoria della relatività generale di Einstein descrive la forza di gravità come una distorsione del tessuto dello spazio-tempo prodotta dalla presenza di masse.
Possiamo immaginare il classico esempio secondo cui lo spazio è costituito da una sottile rete sulla quale sono poggiati i corpi celesti, che a causa della loro massa la incurvano generando la forza di gravità.
Bene, tenendo in mente questo schema relativamente facile da visualizzare, cerchiamo di dare una spiegazione migliore delle onde gravitazionali, che ci sarà molto utile nel capire come rilevarle.
Le onde gravitazionali non sono altro che increspature in questa rete chiamata spazio-tempo che si propagano alla velocità della luce.
Un’analogia perfettamente calzante si può fare considerando cosa succede quando siamo immersi in uno specchio d’acqua calmo (un lago).
Se siamo immobili la superficie dell’acqua è ferma; quando cominciamo a muoverci l’informazione del nostro movimento si propaga attraverso lo specchio d’acqua con la comparsa di increspature superficiali, tanto che questo è il meccanismo con cui i pesci percepiscono la nostra presenza, ma solo dopo il tempo necessario alle increspature di raggiungerli. Le onde gravitazionali possono essere pensate in modo simile: quando qualcosa disturba il tessuto spazio-temporale le informazioni si propagano come un’onda gravitazionale.
Siamo giunti quasi alla risposta alla domanda iniziale di questo paragrafo: come si rilevano le onde gravitazionali?
Consideriamo ancora lo specchio d’acqua nel quale siamo immersi e disseminiamolo di una decina di piccole palline di polistirolo poste alla stessa distanza.
Adesso muoviamoci in modo che si creino onde in superficie ed osserviamo cosa succede alle palline: le oscillazioni che compiono fanno variare inevitabilmente la distanza relativa.
Sebbene con qualche dovuto distinguo, le onde gravitazionali producono un effetto simile: increspando lo spazio-tempo fanno inevitabilmente variare la distanza tra due oggetti.
Un’onda gravitazionale è quindi un cambiamento del tessuto spazio-temporale stesso.
Siamo arrivati ad un concetto un po’ forte da accettare.
L’idea di spazio così come lo conosciamo, già duramente provata dai principi della relatività ristretta, viene irreparabilmente sovvertita rispetto all’esperienza.
La distanza tra due oggetti, anche in quiete l’uno rispetto all’altro, non è sempre la stessa ma varia quando passa un’onda gravitazionale.

Abbiamo anche scoperto la differenza sostanziale con le onde elettromagnetiche: queste usano lo spazio ed il tempo come una specie di mezzo di propagazione; le onde gravitazionali sono invece il risultato della modificazione dello spazio-tempo, proprio perché la gravitazione è una deformazione di questo tessuto cosmico.
State tranquilli, lo spostamento prodotto da un’onda gravitazionale è infinitesimo, dell’ordine di 10^-21 metri per uno spazio tipico di un metro, un milione di volte inferiore alle dimensioni di un protone!
E’ qui la sfida, tutta tecnologica, nel rilevare questo tipo di onde, ed è proprio in questo ambito che si può ammirare con estremo stupore il genio dell’essere umano, in grado di concepire macchinari veramente fantascientifici.


Scoprire in modo diretto ed inequivocabile l’esistenza delle onde gravitazionali rappresenterebbe un successo enorme per fisici teorici, astrofisici, cosmologi ed ingegneri impegnati nella costruzione di apparati così sofisticati per la loro rilevazione.
Prove indirette, che tra l’altro sono perfettamente compatibili (ancora una volta) con la teoria di Einstein, ve ne sono ormai di conclamate.
La prova più importante arrivò nel 1993, quando gli astronomi Russel Hulse e Joseph Taylo scoprirono al radiotelescopio di Arecibo un sistema binario formato da due stelle di neutroni in rapida rotazione.
Gli astronomi capirono che il sistema era destinato a fondersi perché le orbite non erano stabili ma stavano lentamente avvicinandosi a causa di una perdita di energia. La perdita di energia delle orbite stellari non si spiega in alcun modo se non con l’emissione di grandi quantità di onde gravitazionali, seguendo in modo impeccabile le previsioni suggerite dalla teoria della relatività generale di Einstein.
La scoperta valse ai due astronomi il premio Nobel e rappresentò la prima prova chiara che confermava in modo preciso le previsioni di Einstein di quasi 100 anni prima.
Sebbene nessuno metta in dubbio l’esistenza delle onde gravitazionali, rimane il problema della loro rilevazione.
Rilevare le onde gravitazionali direttamente, proprio come si riesce a misurare la quantità di radiazione elettromagnetica proveniente dalle stelle, aprirebbe le porte ad un modo rivoluzionario di studiare l’Universo e consentirebbe di scoprire molti dei segreti che ancora gelosamente custodisce.
Com'è possibile però misurare un cambiamento dello spazio tra due oggetti di appena 10^-21 metri a seguito del passaggio di un’onda gravitazionale? E soprattutto, è davvero possibile?
Non è possibile pensare di misurare una variazione di spazio così piccola con un normale metro o con un microscopio perché vi sono evidenti limiti naturali.
Il principio su cui ci si basano i rilevatori è l’interferenza della luce.
Vista la costanza della velocità della radiazione elettromagnetica, essa è sicuramente il metro migliore di cui possiamo disporre per le nostre misurazioni.
Un raggio di luce monocromatico viene diviso in due raggi identici che compiono percorsi molto lunghi e diversi, generalmente l’uno perpendicolare all’altro.
Visto che la velocità di percorrenza è fissata, se cambia anche di pochissimo lo spazio percorso da uno dei dure raggi, a causa della presenza di un’onda gravitazionale, quando si ricongiungono non si troveranno più perfettamente in fase, ma spostati di un angolo direttamente collegato alla differenza di percorso che hanno dovuto affrontare.
L'ambizioso progetto LISA
Un apparato del genere si chiama interferometro perché utilizza il fenomeno dell’interferenza delle onde elettromagnetiche per le misurazioni.
Maggiore è lo spazio di misurazione, maggiore è la deformazione spaziale misurabile a seguito del passaggio di un’onda gravitazionale, migliore è anche la precisione raggiungibile.
Per questi motivi gli apparati in grado di rilevare le onde gravitazionali devono essere sostanzialmente grandi e far percorrere alla luce, grazie anche a degli specchi, un cammino di diverse decine di chilometri.
Uno spazio di qualche chilometro tra due specchi verrebbe distorto di appena 10^-18 metri.
Il problema è che per misurare differenze di percorso di questa entità tutto l’apparato deve essere costruito con una precisione inferiore a questo valore, con l’aggiunta che il tragitto percorso dalla luce deve essere lungo svariati chilometri.
Capite da soli che costruire qualcosa che risponda a queste caratteristiche mette veramente a dura prova le capacità umane!

Nonostante le difficoltà, attualmente ci sono diversi rilevatori di onde elettromagnetiche in grado di rispettare questi standard, tra cui il più importante è sicuramente VIRGO, progetto italo-francese installato nelle campagne della provincia di Pisa.
VIRGO utilizza un raggio laser estremamente potente e stabile diviso in due fasci identici che percorrono cammini differenti, rimbalzano 50 volte su degli specchi per allungarne il percorso, successivamente ricombinati ed osservati attentamente per capire se vi sono state differenze apprezzabili di cammino. Il tutto è naturalmente (come se non fosse abbastanza complesso) sotto uno dei vuoti più spinti che si possano ottenere sulla Terra, un milione di volte più rarefatto dell’aria che respiriamo (necessario perché altrimenti la luce non si propaga più a velocità c).
Se questo esperimento vi sembra fantascientifico, aspettate di assistere tra qualche anno (forse) al lancio della missione LISA, un enorme sforzo tra l’agenzia spaziale europea ed americana (ESA e NASA).
La missione LISA è costituita da tre satelliti indipendenti  che orbiteranno intorno al Sole a formare un triangolo equilatero immaginario con lati di 5 milioni di chilometri. Ogni satellite è dotato di un cubo di oro e platino che può fluttuare liberamente nello spazio; tutti e tre saranno collegati da altrettanti laser, con il compito di controllare la posizione dei rispettivi cubi.
Grazie alla grande distanza che separa i rilevatori, il passaggio di un’onda gravitazionale dovrebbe essere in grado di generare uno spostamento tipico tra due satelliti di 10^-12 metri, rilevabile dai laser, e provare per la prima volta in modo diretto l’esistenza delle onde gravitazionali.

Tutto questo sembra davvero fantascienza: misurare uno spostamento di 10^-12 metri di due masse di platino ed oro fluttuanti nello spazio a 5 milioni di km l’una dall’altra e collegate da un raggio laser, mentre orbitano ad una velocità prossima a 30 km/s.
Come parte di un Universo meravigliosamente intelligente, anche l’essere umano, se vuole, può dimostrare il suo grande potenziale cercando di scoprire i segreti che gelosamente custodisce. Basta semplicemente volerlo, e tutto diventa possibile.

mercoledì 4 luglio 2012

Trovato il bosone di Higgs: ma cos'è veramente?


Prima di tutto, meglio non chiamarla particella di Dio. 
Questo è un nome sensazionalistico e molto, molto ambiguo, che non c’entra nulla con la scienza. Nessun fisico delle particelle ha mai pensato di darle questo nome. Per loro è semplicemente una particella cercata da tanto tempo, chiamata semplicemente bosone di Higgs.
È freschissimo l’annuncio ufficiale che al CERN di Ginevra  i dati raccolti in oltre un anno di studi sembrerebbero confermare, con un’ottima probabilità, l’esistenza di questa nuova particella, fondamentale per confermare la validità di un modello fisico che fino a questo momento era pericolosamente in bilico tra la salvezza ed un profondo precipizio.
Al di là di roboanti annunci ed implicazioni più o meno mistiche, mestiere questo nel quale i giornalisti sono maestri, cos’è questo bosone di Higgs e perché è così importante?
Probabilmente, anzi, sicuramente, non cambierà le nostre vite quotidiane, ne di certo dimostra l’esistenza di Dio (si, mi è capitato di sentire anche quest’affermazione tra le varie fazioni che si scontrano senza sapere di preciso di cosa si sta parlando).
Il bosone di Higgs è una particella estremamente importante per tutti i fisici ed è stata una scommessa, a quanto pare vinta, dei modelli che descrivono i mattoni fondamentali della materia e come essi interagiscono per formare le strutture che vediamo, dagli atomi alle stelle.

Il modello standard delle particelle fondamental
A partire dagli anni 60 del secolo scorso, i fisici delle particelle avevano compreso che tutta la materia era formata dalla combinazione di alcune, poche, particelle fondamentali.
A tal proposito fu compilata una tabella, una specie di tavola periodica delle particelle, detta modello standard.
In questa speciale tabella trovano posto due gruppi di particelle fondamentali (particelle che non si possono più dividere): quark e leptoni sono chiamati fermioni e rappresentano le lettere dell’alfabeto attraverso le quali si costruiscono nuclei atomici e atomi. L’altro gruppo è composto dai bosoni, particelle estremamente particolari, che hanno il compito unico di trasmettere nello spazio le informazioni sulle proprietà dei fermioni.

Possiamo immaginare i bosoni come particelle utilizzate dai fermioni per comunicare e interagire tra di loro. Quando un fermione si avvicina ad un altro e vuole interagire con esso, prende il telefono e comunica attraverso l’emissione di bosoni. Ma rispetto ad una classica telefonata, c’è qualcosa di diverso. A seconda del modo in cui due fermioni vogliono comunicare, utilizzano un determinato bosone. In tutto i bosoni a disposizione sono quattro: quattro modi di comunicare tra le particelle elementari.
Questo numero non è di certo casuale. Le particelle elementari, in effetti, hanno solamente quattro modi possibili per interagire tra di loro. I fisici le chiamano le quattro forze fondamentali della Natura.
In realtà non tutti i fermioni hanno a disposizione tutte e quattro le interazioni. Solamente i quark hanno piena libertà di scelta. I leptoni, a cui appartengono l’elettrone e gli sfuggenti neutrini, ne hanno a disposizione solamente 3.
A prescindere da questa piccola differenza, le interazioni fondamentali sono: forza elettromagnetica, forza gravitazionale, forza forte e forza debole. Tutto l’Universo obbedisce a queste quattro forze fondamentali, dalle galassie a noi che spingiamo il carrello della spesa ostacolati dalla forza di gravità e dall’interazione elettromagnetica con il pavimento che causa l’attrito.
Le prime due sono ben conosciute, le ultime un po’ meno, perché agiscono solamente su scala subatomica.
Ma non è importante capire quale sia il significato delle interazioni, piuttosto è fondamentale aver chiaro che quando due particelle fondamentali “scelgono” il modo di interagire, emettono i bosoni relativi a quella determinata interazione, i quali trasmettono nello spazio tutte le informazioni necessarie per capire come dovrà essere portata avanti l’interazione.

Fin qui tutto bene.
Attraverso l’interazione forte, i quark generano le particelle costituenti dei nuclei atomici: protoni e neutroni.
La combinazione tra protoni e neutroni da luogo ai nuclei atomici tenuti insieme dalla forza forte, aiutati dalla forza debole responsabile di alcuni processi, come il decadimento beta.
La combinazione dei nuclei atomici con gli elettroni da vita agli atomi, grazie alla forza elettromagnetica. Gli atomi si combinano e danno origine a molecole, le quali danno vita a strutture più grandi, fino ai pianeti e le stelle, regolati dalla forza di gravitazione.

Il modello così presentato sembra funzionare molto bene. Ogni particella è caratterizzata da un pacchetto di proprietà che ne costituisce la perfetta carta d’identità, tra cui possiamo citare la carica elettrica, lo spin, e molte altre che non ci interessano.
La carta d’identità di ogni particella determina il comportamento ed il risultato una volta che sceglie di comunicare con un’altra particella attraverso l’emissione di bosoni.

Tuttavia nella carta d’identità manca un dato fondamentale: la massa.
Il modello descrive perfettamente le proprietà e le modalità di interazione di tutte le particelle, arrivando a giustificare la formazione di tutta la materia e l’esistenza stessa dell’Universo, ma senza considerare la massa.
Questo è un gran problema: è come dire di essere in grado di prevedere alla perfezione il comportamento e le proprietà dell’Universo, a patto di affermare che gli oggetti non abbiano massa, che pianeti, stelle, esseri umani siano fatti di particelle senza peso, non materiali.
Per capire che questa è una grande contraddizione, non c’è bisogno di essere dei fisici: provate ad attraversare un muro e ditemi se non sentite la consistenza del cemento!
La situazione era ancora più seria, in realtà, perché se si introduceva nel modello una nuova proprietà che in qualche modo teneva conto della diversa massa delle particelle, tutto il castello crollava su se stesso: le interazioni, addirittura l’esistenza stessa della materia, non erano più giustificabili.
Com’è possibile tutto questo? Il modello è sbagliato? Ma allora perché prevede così bene la realtà, a patto di non considerare la massa delle particelle?
Il grande imbarazzo fu superato, almeno dal punto di vista teorico, da un fisico inglese, un certo Peter Higgs, negli anni 70.
Il fisico britannico affermò che la massa è una proprietà esterna alle particelle, associata ad un campo, analogo a quelli responsabili delle quattro interazioni fondamentali, detto campo di Higgs.
La massa è data dal movimento delle particelle attraverso il campo di Higgs
Il campo di Higgs può essere immaginato come una fitta trama gelatinosa che permea tutto lo spazio, nella quale le particelle si muovono e per qualche motivo incontrano una resistenza al moto.
L’effetto osservato è del tutto equivalente a quello di una particella dotata di una massa intrinseca che si muove nello spazio, ma l’origine è ben diversa.
Di fatto, questo modello ci dice una cosa sconvolgente: le particelle, quindi tutte le strutture dell’Universo, compresi noi, abbiamo massa, una consistenza, solamente perché ci muoviamo attraverso questa fitta rete gelatinosa che trattiene e regola i nostri movimenti.
L’idea non è poi così assurda, se non altro perché il campo gravitazionale è responsabile di un effetto simile: trattiene a se i corpi, regolando le proprietà dei loro movimenti.
Introducendo in termini matematici l’idea di questo campo di Higgs ed integrandola al modello standard, tutto sembra funzionare alla perfezione.

Come comunicano, però, il campo di Higgs e le particelle che lo devono sentire?
È qui che entra in gioco il famoso bosone di Higgs.
Sappiamo infatti che i bosoni sono i modi per comunicare una precisa interazione, quindi se esiste il campo di Higgs che da massa alle particelle, deve esistere il suo messaggero, il bosone di Higgs. Per provare l’esistenza del campo, quindi, è necessario osservare il bosone di Higgs.

Attualmente la gran parte degli sforzi dei fisici delle particelle si rivolge verso la rilevazione sperimentale di questa particella, che si pensa avere una massa circa 200 volte maggiore del protone.
Per rilevare la sua presenza, occorre che gli acceleratori di particelle siano in grado di raggiungere un’energia di 200 GeV (Giga elettronVolt), teoricamente alla portata del nuovo acceleratore LHC (Large Hadron Collider) di Ginevra e del Fermilab di Chicago.

Il resto è una storia recente. 
Il comunicato stampa degli scienziati delCERN ha confermato l’esistenza di questo bosone, salvando tutta la fisica delle particelle e i modelli costruiti fino a questo momento.
Questa vicenda rappresenta un grande successo dell’umanità nella lunga tappa di conoscenza e comprensione dell’Universo. 
Se proprio si vuole vedere un legame con Dio, con l'Universo, direi che è un bel modo per dimostrare che l'essere umano ha le potenzialità per comprenderlo; a piccoli passi, ma ci stiamo riuscendo. 
Ma con il Dio prettamente religioso, non ha proprio nulla in comune.