sabato 28 novembre 2015

Osserviamo la bellissima costellazione di Orione

Le notti invernali sono molto fredde, ma allo stesso tempo hanno due grandi vantaggi: 1) Il cielo tende a essere più trasparente che nelle altre stagioni (se è sereno!) e 2) La notte scende presto, così non dobbiamo fare le ore piccole per gustarci un po' di cielo.
C'è anche un terzo vantaggio, ed è quello di poter osservare la costellazione a mio avviso più bella di tutto il cielo: Orione.
Il mitologico cacciatore domina il cielo invernale sin dal pomeriggio, quando si può osservare verso l'orizzonte est. Con il passare delle ore la sua inconfondibile sagoma guadagna sempre più spazio, fino a svettare verso sud poco prima della mezzanotte.

La costellazione di Orione in una foto di 30 secondi, sotto un cielo molto scuro


La costellazione di Orione è facile da riconoscere, perché la figura predominante è rappresentata da un quadrilatero, ai cui vertici ci sono tra le stelle più brillanti del cielo. In alto a sinistra una stella dall'acceso color arancio, Betelgeuse; in basso a destra, invece, un astro azzurrino, Rigel. Queste due stelle, anche se non sembrerebbe, hanno molte cose in comune: in pratica, con le dovute approssimazioni, Betelgeuse rappresenta lo stadio finale di stelle che nella loro gioventù emettono una forte luce di color azzurro/blu, proprio come Rigel.
Betelgeuse è un astro che sta giungendo a grandi passi verso la fine della propria vita. Al suo centro l'idrogeno, il combustibile più appetibile e duraturo con cui le stelle si mantengono in vita, è terminato da tempo. Betelgeuse allora, da astro azzurro si è espansa all'inverosimile, fino a superare un diametro di un miliardi di chilometri, e si è trasformata in una supergigante rossa, l'ultimo stadio prima di terminare la propria vita con un'immensa esplosione chiamata supernova, di cui abbiamo parlato brevemente in un post recente.

Al centro di questo brillante quadrilatero, troviamo tre stelle quasi allineate e in uno spazio piccolo: sono gli astri della famosa cintura di Orione. Da sinistra a destra troviamo Alnitak, Alnilam e Mintaka. Citate in tantissime mitologie, antiche e moderne, queste stelle, in realtà, come tutti gli astri, se ne fregano delle nostre insignificanti vicende e brillano perché così hanno deciso le leggi dell'Universo, non per inviare chissà quale strano messaggio a esseri posti su un pianeta che diventa inivisibile già dalla periferia del Sistema Solare.

Più in basso, perpendicolarmente alle tre stelle della cintura, troviamo altri tre astri, più vicini e deboli: stiamo osservando la spada di Orione. La stella centrale in realtà non è una stella mala splendida grande nebulosa di Orione, parte più brillante di un enorme sistema nebulare che avvolge tutta la costellazione. Vale la pena andare sotto un cielo scuro, senza la Luna, e osservare questo piccolo gioiello anche con un modesto binocolo. Ci stupiremo nell'osservare quelle tenui trame di gas dalle quali stanno nascendo ancora oggi centinaia di stelle e chissà quanti pianeti.

mercoledì 25 novembre 2015

L'Universo invisibile: la radioastronomia

Il nostro occhio è sensibile a una limitatissima regione dello spettro elettromagnetico, che sin da tempi antichi abbiamo chiamato luce. Questa rappresenta una minuscola finestra compresa tra le lunghezze d'onda di 400 e 700 nanometri, ovvero tra 0,00004 e 0,00007 centimetri.
Le onde elettromagnetiche, infatti, possiamo immaginarle del tutto simili alle onde del mare, solo che al posto dell'acqua si propagano due quantità, chiamate campo elettrico e campo magnetico, tra loro perpendicolari. Possiamo comunque trascurare queste due grandezze e immaginare un'onda elettromagnetica come se fosse composta di acqua. La lunghezza d'onda rappresenta la distanza tra due massimi, tra due creste della nostra onda marina. Si può parlare anche di frequenza, se preferiamo, e allora questa è definita come il numero di creste d'onda (cioè di massimi) che attraversano una posizione fissa in un secondo. Lunghezza d'onda e frequenza sono tra loro inversamente proporzionali: se una cresce l'altra diminuisce.


Sotto questo nuovo punto di vista, il nostro occhio riesce a percepire come luce solo le onde elettromagnetiche che hanno lunghezze tra un massimo e l'altro comprese tra 400 e 700 nm.
Come possiamo ben immaginare e come ho lasciato già intuire, ci sono davvero infiniti modi di creare un'onda elettromagnetica, proprio come ci possono essere onde di ogni tipo in mare, da quelle a lunghezza d'onda molto breve, generate dalla caduta di una goccia nell'acqua a quelle molto lunghe, create da lontani e tesi venti che spirano nei più grandi oceani del mondo.
Nel caso elettromagnetico si possono generare onde davvero di tutti i tipi: esistono allora quelle con lunghezze d'onda di metri, addirittura chilometri e quelle, infine, con una lunghezza d'onda inferiore alle dimensioni si un atomo.
Al contrario delle onde marine, la lunghezza delle onde elettromagnetiche definisce anche l'energia a loro associata. Ecco allora che le onde più lunghe vengono chiamate onde radio e trasportano con un'energia davvero bassa. Al contrario, le onde più corte che conosciamo prendono il nome di raggi X e raggi gamma e rappresentano la categoria più potente e pericolosa di tutta l'enorme famiglia di onde elettromagnetiche.

Lo spettro elettromagnetico

Tutta questa lunga parentesi sulle onde elettromagnetiche è servita per capire due cose:
1) La nostra visione del mondo così come ci appare è molto, molto limitata;
2) Possiamo sviluppare degli strumenti sensibili a diverse lunghezze d'onda e capire come cambia l'Universo intorno a noi.
Quest'ultimo punto è molto interessante perché potrebbe permetterci di aggirare le forti limitazioni dei nostri sensi per esplorare senza più limiti l'Universo.

Le onde radio, le stesse che utilizziamo da più di un secolo per tutte le comunicazioni, sono la banda per eccellenza che da diversi decenni ci ha aperto un'incredibile finestra su un Universo del tutto invisibile e di cui si ignorava completamente l'esistenza solamente un secolo fa.
Molti corpi e fenomeni del Cosmo emettono onde radio e, sebbene abbiano un segnale molto, molto più debole di quello emesso dal nostro telefono cellulare o dal wifi del computer, possono essere rivelate con degli strumenti chiamati radiotelescopi.

Il funzionamento di un radiotelescopio è identico a quello di un normale telescopio ottico, solo che non si usano lenti ma degli speciali specchi. Le parabole, le stesse che usiamo anche per ricevere la televisione satellitare, sono degli specchi in grado di raccogliere e focalizzare le onde elettromagnetiche nella banda radio. A noi questi specchi sembrano opachi e per nulla utili, ma alle lunghezze d'onda radio questi appaiono lisci e riflettenti come i migliori specchi dei nostri normali telescopi.

Un radiotelescopio.


Fare osservazioni nella banda radio ha tanti vantaggi ma anche un grosso svantaggio, anzi, due. Il primo è che il cielo radio emette poco e il nostro pianeta ormai è ricco, fin troppo, di interferenze. Ecco, possiamo fare un parallelo con l'inquinamento luminoso che affligge le nostre normali osservazioni. Nella banda radio le fonti di "illuminazione" sono ben più forti delle nostre lampade che illuminano, male, le strade. Ripetitori tv, wifi, telefoni cellulari, stazioni radio, sono tutte enormi fonti di emissione; in pratica ognuno di questi dispositivi se potesse essere osservato dai nostri occhi emetterebbe circa come un potente faro di un porto, visibile fino a decine di chilometri di distanza.
Il secondo problema è di natura strumentale e qui spero che mi seguiate tutti. Il potere risolutivo di uno strumento, ovvero la capacità di distinguere due dettagli vicini, è inversamente proporzionale all'apertura dello strumento e direttamente proporzionale alla lunghezza d'onda di osservazione:
PR= 1,22*206265*Lambda/D. 
In pratica, un telescopio più grande fa vedere dettagli più piccoli, ma posso tenere fissa l'apertura e cambiare la lunghezza d'onda per variare la risoluzione. Le osservazioni migliori in banda radio si effettuano tra 5 e 25 centimetri. Prendiamo per semplicità una lunghezza d'onda di 10 centimetri e supponiamo di voler osservare con un radiotelescopio da 10 metri di diametro, che praticamente equivale, al momento, al diametro più grande raggiunto dai telescopi ottici. Inserendo i dati nella formula sopra, otteniamo un potere risolutivo di 2500 secondi d'arco, ovvero 42 minuti d'arco. In pratica, non riusciremo a risolvere nemmeno il disco della Luna!
Per aggirare questo enorme problema, legato alle proprietà delle onde elettromagnetiche, si è ricorsi a una tecnica ingegnosa e spettacolare: l'interferometria. In pratica, in modo più o meno casuale, si è scoperto che se si combina in modo opportuno il segnale raccolto da due radiotelescopi posti a qualche chilometro di distanza, la risoluzione raggiungibile dipende dalla distanza che separa le antenne, non più dalle loro dimensioni. Questa è una scoperta epocale, che permette alle osservazioni radio di raggiungere risoluzioni che attualmente nessun altro telescopio è in grado di fornire, neanche il telescopio spaziale Hubble.

Disponendo in modo opportuno tanti radiotelescopi lungo tutto il globo, è possibile fare osservazioni come se si avesse uno strumento di migliaia di chilometri di apertura. Addirittura, se si pone qualche radiotelescopio nello spazio, è posssibile estendere l'apertura fino a centinaia di migliaia o milioni di chilometri!
Attualmente il record è detenuto dalla rete VLBI (Very Long Baseline Interferometer), una griglia di decine di telescopi sparsi tra la Terra e lo spazio, in grado di arrivare a una risoluzione inferiore al millesimo di secondo d'arco, diverse volte migliore di quella di Hubble e di tutti gli altri telescopi del mondo.

Abbiamo forse capito la portata del più grande vantaggio della radioastronomia: l'interferometria. Sebbene questa tecnica si possa applicare in linea di principo a tutte le altre lunghezze d'onda, attualmente le precisioni necessarie per combinare i segnali delle diverse antenne per formare l'immagine finale si riescono a raggiungere solo per le lunghezze d'onda radio e al limite del millimetro.
Ci sono anche altri fattori che impediscono di usare l'interferometria con i telescopi ottici, primo tra tutti la turbolenza atmosferica. Nella banda radio, infatti, un altro grande vantaggio è rappresentato dal fatto che il seeing praticamente non esiste. Non ci sono immagini deformate dalla nostra atmosfera e addirittura si può osservare sia di giorno che con le nuvole: un altro mondo rispetto alle osservazioni in luce visibile!

Un supertelescopio fatto fa tanti piccoli telesocopi: questa è, in pratica, l'interferometria.

E allora, dopo tutto questo sproloquiare su tecniche e risoluzione, arriviamo alla domanda più interessante: cosa si può osservare con i radiotelescopi? E' qui che viene il bello. Le stelle, che nel visibile dominano qualsiasi immagine, nel radio diventano invisibili. E allora, se non possiamo osservare le stelle, tranne rarissime eccezioni di oggetti molto esotici come le pulsar, che cosa possiamo vedere? La radioastronomia, sebbene cerchi di rivelare le onde elettromagnetiche meno energetiche che esistano, ci fa osservare in dettaglio i fenomeni più violenti dell'Universo, come l'attività nel centro di alcune galassie dovuta alla presenza di un gigantesco buco nero che fagocita enormi quantità di gas.
Queste galassie, dette galassie attive, sono una famiglia di oggetti che nel visibile non mostra particolari dettagli rispetto alle altre, ma nel radio è capace di rivelare qualcosa di questo tipo:

Confronto tra immagine radio (lunghezza d'onda di 6 cm) e visibile, alla stessa scala.


Si fa fatica a capire che le due immagini riguardino lo stesso soggetto e abbiano circa la stessa scala, vero? L'immagine radio, con quei lobi estesi, intricati e un getto che parte dalla sorgente puntiforme al centro, è diretta testimone della grande attività del buco nero centrale, nascosto alla nostra vista, ma i cui effetti sono davvero esplosivi.

I buchi neri, per definizione, sarebbero del tutto invisibili. Tuttavia, quando nelle loro vicinanze si trova a passare una grande quantità di gas, questo viene accelerato a velocità prossime a quelle della luce dalla sua immensa forza di gravità, prima di scomparire per sempre dentro il buco nero. Quest'enorme accelerazione produce due effetti macroscopici: 1) il gas si scalda e inizia a emettere grandi quantità di radiazione e 2) parte di questo viene deviato dall'enorme campo magnetico del buco nero, che lo convoglia dapprima verso i poli e poi lo spara a velocità quasi identiche a quelle della luce verso lo spazio aperto, a distanza di decine di milioni di anni luce.

Questo è quello che osserviamo nel radio. Al centro, la sorgente puntiforme rappresenta la posizione del buco nero, nascosta dal gas che gli orbita intorno a enormi velocità e che emette grandi quantità di energia. Il getto, che si vede nella parte destra, è il gas che ha raccolto il campo magnetico del buco nero e che ha sparato, come un enorme fucile, verso lo spazio aperto. La luminosità diffusa che forma quelli che vengono chiamati radio lobi rappresenta il gas del getto che viene rallentato e deformato dal mezzo intergalattico e si espande su un'area immensa. L'effetto è simile a quello di un getto espulso da una macchina del fumo. All'inizio parte a grande velocità ed è molto stretto e collimato ma poi, interagendo con l'aria, il fumo si allarga e inizia a disperdersi, rallentando la sua corsa, su un'area molto più vasta.
Come possiamo vedere, la Natura ama ripetere i piani ben riusciti, non importa se su scala umana o su una scala di milioni di anni luce!

Le immagini radio ci permettono quindi di osservare un Universo che fino agli anni 50 del secolo scorso poteva essere solo immaginato dalle menti più fantasiose e creative del pianeta, un Universo ben più esteso di quanto i nostri occhi possano percepire e di certo sempre entusiasmante e sorprendente!

venerdì 20 novembre 2015

Perché alcuni corpi celesti hanno un'atmosfera e altri no?

La Terra ha un’atmosfera abbastanza spessa da regolare la temperatura e permettere alla vita di prosperare.La Luna invece ne è completamente priva.Ma com’è possibile che il corpo celeste a noi più vicino, che sperimenta le identiche condizioni della Terra, sia così diverso?
Perché sulla Luna non vi è atmosfera, rendendo questo corpo celeste del tutto ostile alla vita? 
Eppure molti pianeti possiedono un’atmosfera.I giganti gassosi possono essere considerati addirittura delle gigantesche atmosfere.
Tra i pianeti rocciosi, solamente Mercurio non ha uno stabile e spesso involucro gassoso. Scendendo di dimensioni, possiamo osservare che pochi satelliti naturali possiedono atmosfera, anzi, solamente due: Titano e Tritone, luna di Nettuno. Gli altri ne sono sprovvisti.

Non è difficile scoprire quale sia il primo ingrediente per avere un’atmosfera: le dimensioni. In effetti, mano a mano che si scende di dimensioni, le densità atmosferiche diminuiscono inesorabilmente. Marte, poco più grande della metà della Terra, ha un’atmosfera 100 volte più sottile. La Luna, 4 volte più piccola, non ha atmosfera.

Le dimensioni, però, non sono l’unica variabile in gioco. Titano, ad esempio, è poco più grande di Mercurio, eppure ha un’atmosfera 4 volte più densa di quella terrestre. Addirittura Plutone, più piccolo della Luna, ne possiede una. Qual è la differenza tra questi corpi celesti, di dimensioni non troppo dissimili? La distanza dal Sole.

In effetti, la capacità per un corpo celeste di avere o meno un’atmosfera dipende dalle dimensioni e dalla distanza dal Sole. Perché?
Qualsiasi atmosfera è composta da gas. Le molecole di un gas possono muoversi liberamente e sono molto sensibili alla temperatura. Mano a mano che la temperatura aumenta, le singole molecole acquistano sempre maggiore velocità fino a quando, oltre un certo valore, questa potrebbe essere sufficiente per lasciare il campo gravitazionale del pianeta. In questo caso, quindi, qualsiasi atmosfera si disperderebbe inesorabilmente nello spazio. 

La combinazione tra la velocità delle molecole, quindi tra temperatura, e il campo gravitazionale del pianeta, dato dalle sue dimensioni, è ciò che determina la possibilità per un corpo celeste di trattenere un’atmosfera, determinando anche la sua densità massima e la composizione chimica.
Mercurio, ad esempio, è troppo piccolo e vicino al Sole per trattenere apprezzabili quantità di gas nel suo campo gravitazionale.
Venere, al contrario, ha una massa sufficiente per trattenere massicce quantità di anidride carbonica, ma è troppo piccolo e caldo per riuscire a trattenere gas più leggeri come idrogeno ed elio, proprio come la Terra e Marte.
Questi possono essere trattenuti efficientemente solamente dalle masse dei pianeti giganti gassosi. Non è un caso che questi siano composti per oltre il 90% di idrogeno ed elio, gli elementi di gran lunga più abbondanti nell’Universo.

martedì 17 novembre 2015

Quando esploderà la prossima supernova nella Via Lattea?

Negli antichi documenti storici sono diverse le supernovae galattiche osservate, anche in pieno giorno.
Famoso è il caso della stella che nel 1054 si rese visibile per alcune settimane, brillante quasi come la Luna piena vista a occhio nudo. Quella supernova, a distanza di quasi 1000 anni, ha generato una delle nebulose più belle e brillanti: la nebulosa del granchio, nella costellazione del Toro.

L'esplosione di una supernova nella Via Lattea
Per assistere all’esplosione di una stella nella nostra galassia, che sia effettivamente visibile, bisogna avere un po’ di fortuna. Non basta infatti che una stella esploda, ma lo deve fare nella posizione giusta. Se l'astro è oscurato dalle grandi quantità di gas e polveri della Via Lattea, come succede nei pressi del centro o dall'altra parte dei bracci rispetto alla nostra posizione, una supernova potrebbe risultare del tutto invisibile, se non a potenti telescopi nei raggi X. E in effetti si pensa che l'ultima esplosione di supernova nella Via Lattea risalga a non più di 150 anni fa, ma nessuno in quel periodo storico (circa 1870) la vide. E' stata individuata solo di recente grazie alle osservazioni nei raggi X (in grado di penetrare gas e polveri) del resto di supernova che ha generato.

Attualmente sono due le candidate ideali a esplodere come supernovae molto brillanti nei nostri cieli: Antares, la stella più brillante della costellazione dello Scorpione e Betelgeuse, astro rosso di Orione. Secondo gli astronomi, entrambe sono molto prossime alla fine spettacolare e violenta della loro vita ma, anche in questo caso, il termine “molto prossimo” identifica un momento casuale da qui a diverse centinaia di migliaia di anni. Meglio, quindi, non passare la propria vita sperando di assistere alla loro esplosione; tanto se dovesse succedere ce ne accorgeremmo perché diventerebbero decine di volte più brillanti di Venere e perfettamente visibili anche di giorno, almeno per uno o due mesi.
Poi, lentamente la luce si affievolirà e, nel corso di qualche mese, quell’angolo di cielo che per milioni di anni è stato abitato da un astro brillante risulterà improvvisamente orfano per sempre di una delle gemme più belle.

venerdì 13 novembre 2015

Cosa ha strappato via l'atmosfera di Marte?

Un tempo il pianeta rosso era un mondo molto diverso dall'arrugginito deserto ghiacciato odierno, dove trovare acqua liquida è più una sfiziosa sfida che un motivo per sperare di trovare ipotetiche forme di vita.
Antichi letti di grandi laghi, vasti oceani e impetuosi fiumi che hanno scavato la roccia sono segni ben presenti lungo tutta la superficie di Marte, eppure nessuno ha mai visto riempiti questi immensi bacini, anche perché le attuali condizioni per l'esistenza dell'acqua liquida lasciano ben poche speranze: solo in particolari momenti dell'anno, in alcune zone del pianeta e con un'abbondante (e letale) dose di sali, l'acqua può scorrere liquida sul pianeta rosso.

E allora, la domanda che tutti gli astronomi si stanno ponendo sin dalla metà degli anni 60, quando arrivarono le prime immagini ravvicinate della superficie, è: cosa è successo di così catastrofico al pianeta rosso per trasformarlo da un mondo pieno d'acqua a un deserto dove neanche può esistere?

In un mondo ideale la risposta sarebbe semplice: se le condizioni atmosferiche attuali impediscono l'esistenza stabile di acqua liquida e se quei segni sul terreno testimoniano un periodo in cui questa scorreva, allora le antiche condizioni climatiche del pianeta dovevano essere ben diverse da quelle attuali. In particolare, poiché l'esistenza di acqua liquida dipende da temperatura e pressione e supponendo che l'orbita marziana non debba essersi modificata in modo sensibile nel tempo, l'unica alternativa resta una sola: Marte un tempo doveva avere un'atmosfera molto più spessa di quella attuale.

Al momento, infatti, le proprietà dell'involucro gassoso di Marte sono sconfortanti. Con una pressione inferiore all'1% dell'atmosfera terrestre al livello del mare, l'atmosfera del pianeta rosso è simile a quella che si ha sulla Terra a un'altezza di circa 16 mila metri e non c'è verso di far esistere l'acqua pura allo stato liquido. Ammettere quindi l'esistenza stabile di questo prezioso liquido, necessaria per scavare laghi, fiumi e veri e propri canyon, implica di conseguenza aumentare la sua densità atmosferica, quindi pressione e temperatura al suolo.

Bene, se questo era lo scenario miliardi di anni fa, la domanda successiva allora è scontata: dov'è finita l'atmosfera di Marte? Si pensa che poco dopo la formazione del pianeta l'involucro gassoso fosse denso circa come la nostra attuale atmosfera. Com'è possibile quindi che il pianeta abbia perso migliaia di miliardi di chilogrammi di gas e si sia trasformato in modo così drastico nel fossile che osserviamo oggi?

Questa era una domanda alla quale si cercava una risposta da decine di anni e tra speculazioni, ipotesi e poi teorie sempre più convincenti, in questi giorni la NASA sembra aver posato la pietra definitiva, confermando con dati alla mano quello che si vociferava da tempo, sebbene le dinamiche non fossero ancora ben chiare.
Grazie agli studi atmosferici condotti dalla sonda Maven, in orbita attorno a Marte da un anno proprio per studiare la sua atmosfera, ora le cose sembrano essere chiare e in un certo senso impressionanti.

Marte, infatti, ha perso gran parte della sua atmosfera in un periodo di tempo geologicamente limitato, tra 4,2 e 3,7 miliardi di anni fa, a seguito di due cause che concatenandosi in modo perverso hanno segnato il destino del pianeta:
1) Il campo magnetico di Marte, a causa della ridotta massa, si è indebolito a seguito della solidificazione del nucleo, esponendo la sua atmosfera a un invisibile ma terribile nemico:
2) Il vento solare. Il flusso costante di particelle cariche emesso dal Sole, che 4 miliardi di anni fa era centinaia, forse migliaia di volte più intenso di ora, ha svolto un'efficacissima azione abrasiva, strappando via l'atmosfera di Marte a un ritmo impressionante, pari a decine o centinaia di chilogrammi di molecole ogni secondo. In pratica è stato come sparare il getto d'aria di un potente phon su una fragile palla di neve. Il risultato è stato inevitabile e catastrofico.

In appena mezzo miliardo di anni, senza più la protezione del campo magnetico, il giovane Sole ha fatto evaporare nello spazio gran parte dell'atmosfera del pianeta. La temperatura è precipitata, la pressione crollata e l'acqua ha avuto due scelte: congelare nel suolo o evaporare nello spazio. Di quel mondo rigoglioso e dinamico sarebbe restata solo una traccia fossile per miliardi di anni.
Anche adesso Marte sta perdendo atmosfera, ma a causa della bassa attività del Sole, dovuta alla ormai sua maturità, il ritmo di perdita dell'atmosfera è di soli 100 grammi al secondo (mica così poco!).

Simulazione della perdita dell'atmosfera di Marte a causa del vento solare.

Se il presente di Marte è desolante, possiamo comunque dare uno sguardo al suo lontano passato e notare come abbia potuto godere di diverse centinaia di milioni di anni di condizioni accettabili per la nascita di eventuali forme di vita. E se sulla Terra le ultime analisi dicono che la vita potrebbe essere comparsa 4,1 miliardi di anni fa, nonostante una massa ben più grossa da raffreddare e le cicatrici dell'impatto con Theia da ricucire, nulla vieta di pensare che su Marte, che era sicuramente più avanzato del nostro pianeta dal punto di vista evolutivo, la vita possa essere effettivamente comparsa e poi, purtroppo, sparita quando le condizioni hanno sconvolto quel mondo in apparenza accogliente. Senza acqua liquida e con un'atmosfera tanto sottile e impossibilitata a schermare le pericolose radiazioni solari, chissà se gli antichi batteri marziani abbiano trovato una via per sopravvivere lo stesso, magari nel sottosuolo.
Insomma, coma spesso accade nella scienza, una risposta trovata con tanta fatica apre scenari e domande ancora più affascinanti a cui di certo proveremo a rispondere nei prossimi anni.
 

martedì 10 novembre 2015

No, non abbiamo ricevuto segnali alieni da KIC 8462852

Il tempo scorre ma il castello di notizie false intorno alla stella KIC 8462852, di cui ho parlato in modo estensivo in questo post, continua a crescere, senza che vi sia sotto una base reale.
Allora, a quasi un mese di distanza dalla pubblicazione dell'articolo in cui si mostrava lo strano comportamento di questa stella, in apparenza normale, e se ne cercavano delle possibili spiegazioni, nulla in realtà è cambiato dal punto di vista delle nostre conoscenze, ma la fantasia ha corso invece più veloce della luce.

KIC 8462852 è stata scoperta dal telescopio Kepler
Prima di tutto, quindi, è bene ricordare che ci sono spiegazioni molto più probabili sulla natura della imprevedibile variabilità della stella, che è poi l'unica informazione di cui disponiamo. Le notizie secondo cui sarebbero stati ricevuti dei segnali radio provenienti da improbabili civiltà aliene che avrebbero costruito un manufatto enorme per catturare l'energia del proprio astro sono prive di qualsiasi fondamento.

E' indubbio, però, che la stella abbia attratto l'attenzione di gran parte della comunità scientifica per il suo comportamento bizzarro e in apparenza unico tra le decine di migliaia di stelle analizzate a fondo negli ultimi anni dagli astronomi di mezzo mondo. Bisogna però stare attenti a non considerare l'eccitazione della comunità scientifica per qualcosa di incredibile come una megastruttura aliena. Gli astronomi e tutti gli scienziati, infatti, proprio perché animati da un grande spirito di conoscenza, vengono attratti da tutto ciò che mostra comportamenti non conosciuti, soprattutto se riguarda astri che si pensava di conoscere molto bene come le stelle. Ecco spiegato il motivo per cui c'è una vera e propria corsa a chi capirà per primo cosa succede a KIC 8462852 (e aggiudicarsi anche fama e denaro, siamo pur sempre esseri umani!). L'ipotesi della megastruttura aliena resta ancora l'ultima, remota possibilità, una specie di ancora di salvezza per spiegare un fenomeno qualora tutte le ragionevoli ipotesi "naturali" fallissero.

Come impone il metodo scientifico, nessuna ipotesi deve essere esclusa se non ci sono ancora elementi oggettivi per farlo, così ogni astronomo cerca di dare il proprio contributo in base al campo di indagine che meglio conosce. Ecco allora che coloro i quali lavorano da decine di anni al progetto SETI, senza aver mai trovato nulla, sono moralmente obbligati a considerare l'ipotesi di civiltà aliena perché è quella che meglio si sposa con l'obiettivo delle proprie ricerche e con le proprietà dei propri strumenti (i radiotelescopi sono ottimi per trovare eventuali trasmissioni radio ma sono pessimi, ad esempio, per cercare pianeti!). Coloro che dispongono di grossi telescopi stanno cercando di capire se intorno alla stella ci sia un sistema planetario e magari un corpo celeste maturo e adatto per ospitare eventuali forme di vita. E' infatti molto utile ricordare che attorno a questa stella ancora non sappiamo nemmeno se ci siano pianeti simili alla Terra, quindi in grado di ospitare forme di vita, figuriamoci quindi se possiamo al momento confermare la presenza di un manufatto gigantesco costruito da una civiltà avanzatissima per catturare l'energia della propria stella.

Le indagini quindi stanno procedendo. Il SETI sta cercando di ascoltare, tutti gli altri stanno cercando di osservare, sia la stella che eventuali pianeti, magari a diverse lunghezze d'onda per capire le proprietà del corpo o dei corpi che ne occultano la luce a intervalli irregolari. In questo sforzo collettivo, che sa un po' di collaborazione ma tanto di concorrenza agguerrita nel cercare di arrivare per primi a una spiegazione plausibile di cosa stia succedendo a KIC 8462852, si stanno percorrendo tutte le strade e si pensa, o si spera, che presto se ne verrà a capo.
Al momento l'ipotesi più plausibile riguarda la presenza di un folto gruppo di comete (esocomete)  disturbate dal passaggio ravvicinato di una stella in tempi recenti (migliaia o milioni di anni). La stella vicina sembra già esserci; pianeti e/o qualsiasi altra cosa che indichi la presenza di strutture aliene, al di là della fervida fantasia di chi ha proposto questa vera e propria speculazione, no.

I primi dati del SETI sono già arrivati e come volevasi dimostrare non sono favorevoli alla bizzarra ipotesi di struttura aliena. Le antenne che cercano di captare eventuali segnali radio, infatti, non hanno ricevuto segnali artificiali (qui l'articolo originale). Questa non è di per sé una prova ancora definitiva per escludere del tutto l'ipotesi artificiale come spiegazione del comportamento della luce stellare, ma di certo non depone a suo favore e indirizza ancora di più energie e risorse verso altri studi, di certo più prolifici ed efficaci.

Tra poco ne sapremo di più, ma intanto impariamo una cosa fondamentale che ci insegna la scienza e che si rivelerebbe molto utile anche nella nostra vita: bisogna avere pazienza e non parlare prima di avere un quadro completo della situazione. Gran parte della scienza si fa in silenzio, perché per poter parlare 10 minuti in una conferenza stampa senza dire enormi cavolate occorrono spesso mesi, anni, di duro e silenzioso lavoro.
La realtà è sempre molto complessa e apprezza molto la calma e la pazienza.

venerdì 6 novembre 2015

Cassini si getta nei geyser d'acqua di Encelado

Il 28 Ottobre scorso la sonda Cassini, in orbita attorno a Saturno dal 2004, ha effettuato un sorvolo ravvicinato da brividi della luna attualmente più interessante e intrigante del Sistema Solare: Encelado.
Dettaglio di una porzione del polo sud di Encelado
Questo pezzo di roccia e ghiacci, dal diametro di appena 500 km, nasconde infatti al suo interno un vasto oceano globale di acqua liquida. L'acqua, insinuandosi tra le spaccature della spessa crosta, riesce a risalire in superficie nei pressi del polo sud, proiettandosi nello spazio attraverso decine, anzi, centinaia di enormi geyser.

L'acqua che viene proiettata nello spazio congela all'istante, formando una tenue foschia di minuscoli cristalli di ghiaccio, sporcati dalla sabbia e dalle rocce del fondale oceanico. Senza quindi dover scavare profondi, quanto improbabili, buchi di decine di chilometri per capire quali siano le condizioni di quell'oscuro oceano d'acqua, il modo migliore per studiarne le proprietà è far passare a decine di migliaia di chilometri l'ora un'astronave in mezzo a queste nuvole di detriti. Questo è quello che, con una buona dose di coraggio, hanno deciso di fare i tecnici di missione all'impavida Cassini, giunta quasi alla fine della propria vita operativa.

A soli 49 km dalla superficie, Cassini si è tuffata nei suoi geyser
Il flyby ha portato la sonda ad appena 49 chilometri dalla superficie, una distanza davvero esigua che qui sulla Terra nessuna sonda potrebbe mai raggiungere perché si ritroverebbe a nuotare nella nostra densa atmosfera. Sorvolando le grandi spaccature attive di Encelado, Cassini ha ripreso delle immagini di incredibile dettaglio, ma soprattutto ha potuto analizzare con i suoi strumenti la composizione chimica del materiale che fuoriesce con un ritmo di centinaia di kg al secondo da questa incredibile luna.

Gli imponenti geyser di Encelado
Le analisi sulla composizione chimica della nuvola di acqua e detriti saranno lunghe e impegneranno gli scienziati per diverse settimane prima di poter avere dei risultati, ma intanto possiamo sognare godendoci la vista meravigliosa che si è trovata di fronte Cassini, tra canyon, spaccature, panorami innevati (parte del materiale dei geyser ricade in superficie formando un sottile strato nevoso), spingendosi là dove nessun essere umano era mai arrivato.

Non sappiamo cosa ci sia sotto la spessa crosta ghiacciata, ma questi geyser sono delle vere e proprie porte per capire se effettivamente questo satellite al suo interno possa ospitare forme di vita, protette dagli impervi ambienti dello spazio vuoto e riscaldate dall'abbraccio gravitazionale di Saturno. E' proprio la sua enorme massa a fornire l'energia all'interno di Encelado per mantenere, si pensa da miliardi di anni, un ambiente caldo e stabile di acqua liquida, riscaldata fino ad alte temperature da sorgenti idrotermali del tutto simili a quelle che sulla Terra ospitano la vita da oltre 3,5 miliardi di anni, ben prima che conquistasse la superficie.

Nell'attesa delle analisi, godiamoci le spettacolari immagini del satellite e ammiriamo una mappa dei suoi poli, dalla quale si può già intravedere che nei pressi del polo sud le spaccature della crosta lasciano affiorare un materiale solido dal colore azzurro, quasi cristallino, molto simile al ghiaccio puro che qui sulla Terra si forma dagli specchi d'acqua più puliti e freddi. 

Mappa in alta risoluzione delle regioni polari

Per saperne di più: http://www.nasa.gov/feature/jpl/saturns-geyser-moon-shines-in-close-flyby-views

martedì 3 novembre 2015

Che cos'è la vita?



In un precedente post abbiamo sfiorato il grande tema della vita e di quali siano le condizioni minime per la sua nascita. 
In questo posto approfondiamo la definizione di vita, cercando di rimanere nell'ambito biologico, senza sforare, troppo, nella sfera sprituale.
La domanda con cui si apre questo post è una delle più discusse, antiche e rincorse sin da quando l’essere umano primitivo ha preso coscienza di se stesso e del mondo che lo circondava.
Per millenni la risposta è stata lasciata in sospeso, affidata alla sfera delle divinità alla quale nessun essere umano, mortale e imperfetto, poteva avere accesso.
Non abbiamo naturalmente la presunzione di sostituirci a Dio, non lo faremo mai poiché non sappiamo rispondere, e forse non potremo mai farlo, a molte delle domande che iniziano con un “perché”, quesiti che cercano i motivi primi per i quali la scienza diventa uno strumento inefficace.

Siamo però potenzialmente in grado di comprendere come funziona l’intero Universo e tutti i suoi abitanti.
Nel nostro caso specifico, questo significa avere finalmente la possibilità di comprendere cosa sia la vita, quali i principi fisici alla base, come può nascere, evolvere, svilupparsi da un minuscolo batterio fino a un complicato essere umano, riprodursi ed espandersi in tutto l’Universo, colonizzandolo alla stregua delle stelle nelle galassie.
Non si sa perché la vita nasce, perché noi siamo qui; per ora non ci interessa, concentrati come siamo nel cercare.

Esulando completamente dal punto di vista spirituale – questo spetta a ognuno di noi – la definizione migliore e più semplice di vita è forse quella che sin dalle scuole elementari ci hanno insegnato: un organismo, non necessariamente cosciente, che utilizza alcuni processi e specie chimiche per ottenere energia e riprodursi. Questo è quello che fanno anche i minuscoli batteri, organismi costituiti da una sola cellula, nient’altro che l’unità vivente più piccola che possa esistere autonomamente.
Sulla Terra la vita è presente ovunque, così evidente che a volte non ce ne accorgiamo neanche di quanto abbia ormai modificato a sua immagine questo pianeta.

Ma non di rado riconoscere la vita, anche per gli scienziati che la studiano, può non essere facile.
Se parliamo di forme di vita intelligenti, tutti sanno benissimo identificare un essere umano. Non ci sono difficoltà neanche per tutte le forme macroscopiche come animali e piante. Ma ci sono classi di organismi, a volte molto semplici, altre più complesse, per cui le cose cambiano molto. Tutto questo perché i processi vitali, detti anche processi biologici, possono manifestarsi in modi estremamente diversi e adattarsi a condizioni che noi esseri umani non potremmo mai e poi mai sopportare.
Non sono passati molti anni da quando si è scoperto che complesse specie marine vivono addirittura sul fondo delle fosse oceaniche. Sotto più di dieci chilometri d’acqua, al buio più completo e perenne, con una pressione di oltre mille atmosfere e una temperatura sempre vicina allo zero, nessuno credeva che ci fosse posto per la vita come pensavamo di conoscerla. Eppure siamo stati clamorosamente smentiti, identificando delle specie che hanno addirittura subito notevoli segni di evoluzione. Com’è possibile che le molecole e i processi vitali possano sopravvivere a un ambiente così ostile? Evidentemente avevamo sottovalutato la capacità degli organismi di procacciarsi energia e la loro voglia inconscia di sopravvivere a dispetto di tutto e tutti.
In effetti negli ultimi venti - trent’anni il nostro concetto di vita si è evoluto in un modo notevole e inaspettato, anche se è ancora lungi dall’essere compreso fino in fondo. Però, forse, abbiamo capito dal punto di vista chimico e fisico la nostra domanda iniziale.

Cos’è allora la vita?
Precedentemente abbiamo dato una definizione in base al comportamento che osserviamo in tutti gli esseri viventi, ma andando più in fondo, arrivando al nocciolo della questione, le cose si complicano.
Anche le forme di vita più semplici sono in realtà estremamente organizzate, costituite da una serie di apparati che si sono strutturati in perfetta sintonia per ricavare energia dall’ambiente circostante, adattandosi alle più disparate condizioni esterne.
Quasi inconsapevolmente abbiamo allora subito a disposizione un’altra definizione, che meglio ci fa comprendere la situazione: un organismo vivente è un’entità che ha organizzato la materia presente nell’ambiente nel quale si è sviluppato e cerca in ogni modo di mantenere quest’organizzazione per il maggior tempo possibile.

Sembra una definizione un po’ più romantica e sicuramente a effetto, ma non è campata in aria.
Per apprezzarla fino in fondo dobbiamo considerare un principio della termodinamica che sembra valere per tutto l’Universo, e che prende in considerazione una parola strana (e forse odiata): entropia.
Seguendo le nozioni che probabilmente abbiamo almeno sentito di sfuggita alle scuole superiori, possiamo immaginare l’entropia come una misura del grado di disordine di un sistema qualsiasi. Il principio della termodinamica che la tira in ballo afferma che l’entropia di un sistema chiuso (come l’Universo) tende sempre ad aumentare con il passare del tempo. Questa frase, un po’ oscura, è di fondamentale importanza per il funzionamento dell’Universo stesso, perché indica la strada che tutti i processi fisici devono seguire.
Nessuno ha mai visto comparire una tazza da caffè da un cumulo di creta ammassato alla rinfusa, e nessuno ha mai visto crearsi un’automobile da un agglomerato casuale di lamiere. “È impossibile!” Diremmo con voce sicura.

L’aumento dell’entropia convince la nostra esperienza che è impossibile che una montagna si trasformi in una piramide perfetta semplicemente a causa dello scorrere del tempo e della forza degli elementi naturali.
Ma a ben guardare, le implicazioni sono più profonde: qualsiasi struttura ordinata è destinata infatti con il tempo a perdere inesorabilmente quell’ordine.
In altre parole, con il passare del tempo il disordine di una struttura e dell’Universo intero tende inesorabilmente ad aumentare.
Questo concetto universale si applica anche per i processi biologici ed è sostanzialmente quello che rende inevitabile la morte.

Se c’è una cosa che abbiamo imparato dallo studio dell’Universo è che segue delle regole ben determinate in cui le eccezioni non sono contemplate.
L’aumento dell’entropia è una di queste regole, che però sembra valere più come una linea di tendenza su un lungo periodo temporale, fortunatamente.
Si, perché di strutture ordinate nel Cosmo ce ne sono eccome: le galassie, le stelle, i pianeti, la vita.
Gli esseri viventi, soprattutto gli organismi complessi come il nostro, sono la palese manifestazione che l’aumento dell’entropia si può sospendere o aggirare in qualche modo, sebbene solo per un limitato periodo di tempo.

E allora ecco una definizione ancora più spettacolare della vita: un istante di durata infinitesima rispetto ai tempi dell’Universo in cui, più o meno casualmente, della materia disordinata si è incontrata e ha deciso di organizzarsi per cercare di invertire l’aumento dell’entropia. Un ammasso casuale di particelle che ha compiuto la magia impossibile: costruire un organismo perfettamente ordinato, comporre un’automobile da un groviglio informe di lamiere. Una probabilità infinitesima che però si è realizzata. La vita è dunque la battaglia per eccellenza contro l’aumento dell’entropia dell’Universo.

Noi esseri viventi non siamo altro che una fluttuazione infinitesima dell’entropia di un sistema, un piccolissimo strappo alle ferree regole dell’Universo reso possibile dalla brevità di questa nostra organizzazione. Siamo reazioni chimiche organizzate che cercano di combattere l’entropia riproducendosi, prima di venir smembrate da questa inevitabile spada di Damocle cosmica.
Da chi o cosa è messa in atto questa organizzazione?
Da precise interazioni tra molecole e atomi; in parole più chiare dalla fisica.

Il perfetto ordine con cui il nostro corpo compie movimenti, li coordina quasi senza che ce ne accorgiamo, elabora pensieri, parole, sentimenti e si mantiene in vita per diversi decenni, è regolato a livello fondamentale dall’interazione di atomi e molecole. La vita, quindi, si basa nient’altro che sulla chimica (una branca della fisica), su delle specie che legandosi, scindendosi e reagendo in modo ordinato rispetto al rumore di fondo inanimato riescono a dare vita a un piccolo batterio o ai nostri sogni.
Tutti i processi biologici sono quindi regolati da legami chimici tra atomi, alcuni dei quali sembrano avere la naturale tendenza ad aggregarsi e formare strutture in grado di mettere un po’ d’ordine nel caos totale del Cosmo.
Anche il sostentamento energetico deriva da particolari molecole che legate o spaccate dai processi biologici, quindi da altre specie chimiche, producono l’energia necessaria per alimentare il motore e combattere l’entropia.

Potremmo a questo punto fare un passo in avanti e giungere a una domanda alla quale nessuno ha ancora una risposta.
Se infatti è immaginabile capire che un organismo semplice, magari costituito da una sola cellula, si mantenga in vita solamente grazie a delle opportune reazioni chimiche, com’è possibile che una specie estremamente complessa ed evoluta come quella umana, capace di una coscienza, di pensieri, ragionamenti, sogni, sentimenti, sia regolata dagli stessi meccanismi?
Possibile che tutto quello che appartiene alla sfera interiore dell’uomo non sia altro che opportune reazioni chimiche organizzate?
Questa in realtà non è la domanda senza risposta, anzi, solamente l’unica nostra certezza in questo campo. Ed è naturalmente affermativa: anche noi, per quanto complessi, siamo regolati da reazioni chimiche tra atomi e molecole. I nostri pensieri sono creati, elaborati e immagazzinati seguendo lo stesso principio, senza eccezione. Cos’altro potrebbe essere in un Universo comandato perfettamente dalle leggi della fisica? Ci crediamo davvero così speciali da pensare di funzionare in modo unico e diverso? Non è riduttivo pensare che tutto quanto sia regolato dalla chimica e dalla fisica, anzi, guardandoci allo specchio dovremmo essere stupefatti e senz'altro fieri, perché siamo la manifestazione più spettacolare di quanto siano potenti ed eleganti le leggi che governano l'Universo.

La domanda a cui non riusciamo a rispondere è, trascurando il solito “perché”: qual è il confine tra un essere non cosciente, come un batterio, e uno cosciente? Com’è possibile che atomi e molecole diventino così organizzate da riuscire, tutte insieme, a rendersi conto della loro stessa esistenza e dell’ambiente che li circonda? Dove si trova questo confine a livello biologico? Non lo sappiamo e non lo sapremo forse per molto, molto tempo, ma abbiamo trovato una nuova definizione per la vita, seppur in questo caso limitata alla nostra specie umana: siamo un aggregato di atomi e molecole perfettamente organizzato e cosciente che ha deciso di sfidare per breve tempo la legge dell’entropia e combatte ogni giorno contro la voglia morbosa dell’Universo di riportare il disordine sull’ordine.