giovedì 28 gennaio 2016

Ancora su KIC 8462852, ancora una sorpresa

Il processo di conoscenza della Natura, in particolare dell'Universo, ha alcuni aspetti molto interessanti che dovrebbero essere di esempio anche nella vita di tutti i giorni. Qualsiasi sia l'ambito di indagine: scientifico, sociologico, politico, economico, la realtà è una figura talmente complessa che per essere descritta con un'accettabile accuratezza ha bisogno di essere osservata per molto tempo e da diversi punti di vista. Non è una possibilità, è un obbligo. E' un processo delicato che richiede tempo, metodo e soprattutto una certa forza di volontà per non cadere in conclusioni rapide quanto incomplete o, con una parola: demagogiche.

Quando si vuole arrivare alla verità, senza lasciarsi condizionare dalle forti correnti che di continuo provano a travolgerci, sono due le regole fondamentali che ci impediscono di naufragare:
1) Mai essere troppo sicuri di qualcosa al punto di non comprendere (o accettare) nemmeno le obiezioni degli altri o di sentirsi appagati e smettere di cercare;
2) Mai lasciare che l'orgoglio ci impedisca di cambiare idea alla luce di nuove indagini. Questo è un punto delicato. Ci hanno insegnato nel nostro passato di bambini prima e adolescenti poi, che un uomo forte e sicuro di sé è colui che si fa un'idea e la porta avanti contro tutto e tutti. Non c'è nulla di più sbagliato: una persona forte è colei che non smette mai di mettere alla prova le proprie convinzioni, che si mette di continuo alla prova ed è sempre pronta a cambiare idea quando la realtà dei fatti diventa incompatibile con le proprie teorie.
Cosa c'entra tutta questa strana premessa con la stella  KIC 8462852? Al momento sembrerebbe poco, ma tra non molto sarà tutto più chiaro.

Solo pochi giorni fa, un interessante articolo dell'astronomo Schaefer mise in evidenza un fatto osservativo sorprendente in merito alla misteriosa stella KIC 8462852, l'astro che ha mostrato rapide, casuali e profonde diminuzioni della propria luce alle osservazioni del telescopio spaziale Kepler.
Schaefer, analizzando gli archivi fotografici storici di Harvard, aveva costruito una curva di luce su un intervallo di 100 anni ed era arrivato alla conclusione che la stella KIC 8462852 non solo mostrava diminuzioni di luce su scala giornaliera, ma nell'ultimo secolo aveva diminuito costantemente la propria luminosità. Questo, per una stella di sequenza principale di tipo F, è un aspetto sorprendente e del tutto inaspettato, che portava ben oltre il limite tutte le ipotesi, già traballanti, che erano state fatte per spiegare i rapidi cali di luminosità osservati da Kepler.

Mappa per l'identificazione di  KIC 8462852
L'idea di Schaefer di osservare nei dati storici il comportamento di questa stella è stata geniale e i risultati a cui era arrivato sono sembrati straordinari, forse persino troppo. Tutto però sembrava tornare: la curva di luce della stella KIC 8462852, confrontata con quelle di altre due stelle di controllo del campo, mostrava una diminuzione sistematica ben oltre l'errore fotometrico e con un trend che le due stelle di paragone non avevano. La conclusione, quindi era palese: KIC 8462852 aveva diminuito la propria luminosità in modo sorprendente e non spiegabile nell'ultimo secolo, forse negli ultimi secoli. L'apparato che supportava la tesi sembrava solidissimo, ma qui entra in gioco la prima regola, che nel linguaggio fisico implica solo una cosa: continuare a indagare e mettere alla prova ogni precedente affermazione.
 
A distanza di pochi giorni è stato pubblicato un altro articolo che fornisce nuovi dati e giunge a una spiegazione alternativa e piuttosto convincente alla diminuzione della luce osservata da Schaefer nella curva di luce secolare di KIC 8462852. L'articolo, al contrario di quello di Schaefer, è ancora una bozza che non è stata pubblicata su nessuna rivista, quindi non ha ancora subito il vaglio severo dei cosiddetti "peer review". Ogni articolo pubblicato su riviste del settore deve infatti essere prima letto e controllato da uno o più ricercatori che si occupano dello stesso campo di indagine. Solo dopo un loro parere oggettivo, gli editori decidono se pubblicarlo o rifiutarlo.
Con queste dovute precauzioni, la conclusione a cui sono arrivati Michael Hippke, Daniel Angerhausen è in un certo senso sorprendente: la diminuzione di luce osservata è probabilmente da imputare a qualche errore strumentale e non a fattori intrinseci alla stella. Insomma, probabilmente si è trattato di un errore fotometrico e tra poco cercheremo di comprenderlo meglio.

Non chiamateli ignoranti o stupidi, primo perché sono scienziati che conoscono molto bene il proprio campo e meritano rispetto, secondo perché stupido è solo colui che continua a sostenere la propria tesi anche quando tutte le condizioni mostrano il contrario. La Natura si conosce spesso per errori, per sbagli, per veri e propri abbagli, che hanno la forza di impartirci continuamente severe lezioni su quanto sia importante il metodo scientifico e la continua ricerca della verità, anche quando irrazionalmente ci sentiamo già convinti di averla trovata. Il confronto e le discussioni, sempre civili, con altre persone interessate allo stesso argomento è spesso un'arma di incredibile efficacia per arrivare a un obiettivo comune: conoscere la realtà in modo oggettivo, non per imporre le proprie convinzioni o far crescere il proprio ego. Questa è un'altra lezione che ci insegna la scienza e che non dovremo mai dimenticare.

Hippke e Angerhausen hanno ripreso in mano tutti i dati fotometrici storici analizzati da Schaefer e sono arrivati alle sue stesse conclusioni: KIC 8462852 sembrava aver diminuito la propria luminosità di 0.16 magnitudini nell'ultimo secolo. A partire da questo dato di fatto hanno cercato di andare più a fondo per capire se i dati fotometrici potessero nascondere un'altra piccola sfaccettatura della realtà. Hanno selezionato qualche decina di stelle della stessa classe spettrale di KIC 8462852, non troppo distanti, e hanno fatto la scoperta: 18 delle 28 stelle mostrano una sistematica diminuzione di luce di una quantità simile a KIC 8462852, il 64%. Come se non bastasse, molte di queste mostrano un salto di luminosità tra la serie di dati degli anni 40 e quelli degli anni 70.

Curva di luce di KIC 8462852, a sinistra, e di un'altra stella di classe F, a destra costruite dagli archivi storidi di Harward da parte di Hippke e Angerhausen. Entrambe sono state corrette per la diminuzione di 0.16 magnitudini osservata e mostrano un comportamento simile. Inoltre, è evidente il salto in luminosità che hanno subito tra le due serie di dati. Comportamenti simili hanno coinvolto il 64% delle stelle di classe F nei pressi di KIC 8462852.
 
A questo punto le conclusioni possibili sono due:
1) Gran parte delle stelle di classe F del campo inquadrato da Kepler ha variato di luminosità nell'ultimo secolo allo stesso modo, con un salto di circa un decimo di magnitudine nello stesso periodo di tempo;
2) Si tratta di un errore strumentale. Per qualche motivo, da ricercare nella diversa risposta delle lastre fotografiche (si utilizzavano queste fino almeno agli anni 90!), dei filtri o del processo di calibrazione fotometrica, si è generato un errore sistematico che ha afflitto in modo particolare le stelle di classe F, probabilmente in modo legato quindi al colore degli astri.

Ora, richiamando la regola numero 2, cerchiamo di abbandonare l'orgoglio e il desiderio, che ci hanno fatto amare l'idea di una stella dal comportamento eccezionale che nell'ultimo secolo ha mostrato qualcosa che nessun astro dell'Universo ha fino a questo momento mostrato ai nostri strumenti. Guardiamoci tranquilli allo specchio e chiediamoci: alla luce dei nuovi dati, qual è la spiegazione più probabile? 
Non c'è dubbio: per quanto ne sappiamo ora, se il lavoro di Hippke e Angerhausen è stato fatto bene (e qui, per ora, dobbiamo fidarci in attesa della revisione dei peer review) l'ipotesi più probabile è che KIC 8462852 è sì una stella peculiare, che ha mostrato al telescopio Kepler episodi di variabilità su breve scala temporale non spiegabili e assolutamente reali, ma non è l'oggetto sconvolgente che era uscito fuori dalle analisi di Schaefer. La diminuzione di luminosità osservata nell'ultimo secolo con molta probabilità non è reale ma frutto di un errore strumentale che ha affetto gran parte degli astri dello stesso tipo presenti nelle lastre fotografiche storiche.

Come avevo intuito nel precedente post, la storia su KIC 8462852 si è arricchita già di una nuova, sorprendente puntata, un colpo di scena scientifico degno delle migliori serie tv americane. Sarà questo l'ultimo atto? Certo che no. Diversi gruppi di ricerca stanno approfondendo in questi giorni i risultati di Hippke e Angerhausen, proprio come questi hanno fatto con il lavoro di Schaefer. Ci saranno nuove osservazioni e studi e probabilmente i colpi di scena non sono finiti. Chi ha detto che la scienza è noiosa?




Cosa succede a un pianeta se la propria stella muore?



La domanda potrebbe interessare le future generazioni, se l’essere umano non si dovesse estinguere prima, che dovranno fare i conti con le fasi finali della vita del Sole. Il destino dei pianeti, in effetti, sembra indissolubilmente legato a quello della propria stella. Per milioni o miliardi di anni, come un’amorevole mamma, la stella fornisce energia per tutti i pianeti che le orbitano attorno, rendendo vive le loro atmosfere e creando anche le condizioni per lo sviluppo della vita. 

Un pianeta attorno a una nana bianca
Tuttavia, al contrario di un genitore che lascia la propria eredità ai figli ormai cresciuti, le stelle potrebbero non essere altrettanto generose.
Se la stella ha una massa superiore alle 8 volte quella del Sole, per il sistema planetario non c’è scampo. La trasformazione in supergigante rossa vaporizzerà tutti i corpi celesti entro un miliardo di chilometri di distanza. La successiva esplosione come supernova potrebbe spazzare via del tutto ciò che resta del sistema planetario.
Non è ancora chiaro quanto possa essere distruttiva sulle orbite planetarie l’esplosione di una supernova poiché sono stati trovati pianeti, o detriti, anche attorno ai resti di stelle esplose. Quello che sembra inevitabile è comunque l’estinzione totale di ogni eventuale forma di vita, la vaporizzazione delle atmosfere e pesanti sconvolgimenti orbitali. Probabilmente i superstiti non sono altro che i resti solidi di quelli che un tempo potevano essere grandi pianeti gassosi.

Le cose vanno meglio per tutti quei pianeti che orbitano attorno a stelle che non esploderanno come supernovae, come il Sole. Prima di cantare vittoria, però, è meglio chiarire lo scenario, perché per la vita della Terra non ci sarà comunque scampo. Quando questi astri esauriscono l’idrogeno nel proprio nucleo si espandono diventando giganti rosse, più piccole delle supergiganti ma comunque estese per oltre un centinaio di milioni di chilometri.
Tutti i pianeti in prossimità della nuova superficie stellare verranno vaporizzati e fagocitati senza pietà. Gli altri subiranno degli sconvolgimenti climatici, perché la radiazione elettromagnetica emessa dalla stella sarà molto più elevata. Le eventuali atmosfere planetarie inizieranno a evaporare; i corpi celesti ghiacciati nelle periferie inizieranno ad accendersi come milioni di enormi comete. È possibile che alcuni pianeti o satelliti naturali possano incontrare condizioni adatte per lo sviluppo di un’atmosfera e per l’esistenza di acqua liquida sulla superficie, ma non sarà questa una situazione propizia all'evoluzione di complesse forme di vita, perché la fase di gigante rossa non è per niente stabile e soprattutto ha una durata troppo breve (meno di un miliardo di anni).

La trasformazione in nebulosa planetaria non dovrebbe causare particolari sconvolgimenti alle orbite dei pianeti, perché il gas rilasciato è rarefatto e non possiede elevate velocità. Al limite si potrebbe assistere alla corrosione di quello che rimane delle eventuali atmosfere.
Con il nucleo centrale che collassa a formare una nana bianca, le orbite dei pianeti superstiti subiranno delle modificazioni (ma non catastrofiche), a causa della minore forza di gravità esercitata da quello che resta della stella, poiché parte della massa sarà stata espulsa a formare la nebulosa planetaria. 

Il calore emesso dalla nana bianca è molto inferiore rispetto alla radiazione elettromagnetica della stella quando si trovava nella fase di gigante rossa, o prima ancora, quando attraversava le fasi più stabili della propria vita. Il sistema planetario, quindi, si raffredderà. È probabile che le eventuali atmosfere residue congeleranno, precipitando al suolo. Gli eventuali pianeti gassosi più lontani potrebbero addirittura trasformarsi in corpi solidi.
Il destino del sistema planetario sarà ormai segnato. L’energia proveniente dalla nana bianca si esaurirà molto lentamente con il tempo, facendo calare il sipario su una parte di storia che non tornerà mai più. I pianeti continueranno a ruotare attorno alla massa centrale, ma saranno sempre più avvolti dal buio e dal freddo terribile del cosmo.

lunedì 25 gennaio 2016

KIC 8462852: il mistero si infittisce



Per chi non se lo ricorda, KIC 8462852 è stato senza dubbio uno dei misteri astrofisici più importanti del 2015. Una normalissima stella di sequenza principale e di classe spettrale F3, come ce ne sono tante nell'Universo, ha mostrato agli occhi molto sensibili del telescopio spaziale Kepler delle improvvise e imprevedibili diminuzioni della propria luce, anche fino al 20%. Furono molte le ipotesi proposte per spiegare quel comportamento unico, tra cui anche le più fantasiose che riguardavano la possibile presenza di una mega struttura aliena con l'obiettivo di sfruttare l'energia della stella. Chiamata sfera di Dyson, quest'affascinante ipotesi era interessante non per il fatto in sé, quanto piuttosto perché testimoniava il grosso buio interpretativo degli astronomi in merito a quanto era stato osservato.

Una famiglia di comete? Probabilmente no.
A distanza di qualche mese le cose sembravano essere leggermente meno fumose. Le sensibili antenne del SETI avevano fallito nel rivelare qualsiasi comunicazione di intelligenze extraterrestri, allontanando la già remota possibilità che quelle imprevedibili diminuzioni di luce fossero dovute a enormi strutture artificiali. Allo stesso tempo erano state confermate tutte le misurazioni di Kepler, dando più forza a un'ipotesi che era già stata avanzata tempo prima: un immenso sciame di comete era transitato di fronte al disco della stella durante le osservazioni del telescopio spaziale e aveva creato quelle diminuzioni di luce casuali e repentine osservate. Il mistero, quindi, stava per essere risolto, ma nella scienza le sorprese sono sempre dietro l'angolo.

Un nuovo studio pubblicato il 13 Gennaio scorso dall'esperto astronomo Bradley E. Schaefer e accessibile a questo link, sembrerebbe rimescolare le carte e distruggere le flebili certezze che si stavano timidamente affacciando. Schaeder ha fatto un enorme lavoro di ricerca, andando a scovare in tutti gli archivi fotografici del passato il campo stellare di KIC 8462852, che ha la fortuna di trovarsi in una porzione di cielo (tra Cassiopea e il Cigno) che è stata osservata con continuità da ogni programma di ricerca nel visibile, dall'invenzione delle lastre fotografiche a oggi.
E infatti Schaefer ha ottenuto preziosissime informazioni fotometriche su un periodo temporale di ben 99 anni, dal 1890 al 1989, decisamente maggiore del tempo di osservazione di Kepler, limitato a circa 3 anni.

100 anni di variazioni di luminosità di KIC 8462852 (punti blu)
La costruzione e successiva interpretazione dei dati non lascia scampo: la stella KIC 8462852 non ha subito variazioni di luminosità solo nel periodo di osservazione di Kepler, ma nell'ultimo secolo ha diminuito sistematicamente la propria luminosità di quasi 2 decimi di magnitudine. Sebbene la limitata risoluzione in luminosità e tempo della curva di luce secolare non permetta di riconoscere i repentini cambi di magnitudine osservati da Kepler, lo studio di Schaefer ci rivela una stella dal comportamento davvero unico, che sta subendo qualche fenomeno fisico che ne attenua in modo sistematico la luminosità sul grande periodo temporale e la fa variare in modo imprevedibile su scale più brevi. E' una variabilità che potrebbe andare avanti da diversi secoli, se non millenni, e che quindi presuppone un fenomeno fisico molto più complesso, stabile e duraturo di quelli finora ipotizzati.

Calcoli alla mano, infatti, se la diminuzione della luce fosse dovuta al transito di oggetti cometari organizzati in gruppi più o meno folti, per giustificare una diminuzione di luce che va avanti da oltre un secolo servirebbero circa 648 mila comete giganti di oltre 200 km di diametro, ben organizzate nel passare di fronte alla propria stella proprio nell'ultimo secolo, tutte sullo stesso piano orbitale. Per confronto, la cometa più grande conosciuta nel Sistema Solare è la Hale-Bopp, con un diametro di circa 60 km. Come se non bastasse, la massa di tutte le 648 mila comete dovrebbe essere quasi la metà di quella della Terra, 4 volte superiore alla massa stimata di tutti gli oggetti della nostra fascia di Kuiper. Schaefer si chiede come sia possibile spiegare in questi termini una diminuzione di luminosità che potrebbe andare avanti anche da ben più di un secolo.

Ora, tutto è possibile, certo, ma l'ipotesi che al momento era la preferita tra gli scienziati, ovvero la presenza di un folto gruppo di comete, sembra vacillare non poco e perdere diverse posizioni. Il problema è che non si ha la più pallida idea di quali ipotesi al momento potrebbero guadagnare credito; su questo punto neanche Schaefer si sbilancia.
Se la diminuzione di luce osservata da Kepler fosse dovuta ad esempio alla presenza di un disco compatto di polveri o di ammassi di polveri attorno alla stella, per giustificare la diminuzione della luce in un periodo di almeno un secolo si dovrebbe aumentare la quantità di polvere prevista attorno a KIC 8462852 tra 10 mila e 10 milioni di volte e giustificare il motivo della sua presenza, visto che nell'ultimo secolo sembra aver pure aumentato di densità! Di nuovo, questo è uno scenario che attorno a una stella di classe F, ormai con una certa età, non è mai stato osservato.

Il mistero, quindi, prosegue più forte che mai. Non resta che darci appuntamento alla prossima puntata, perché di sicuro ci sarà ancora molto di cui parlare di quest'oggetto unico.

giovedì 21 gennaio 2016

Scoperto un nuovo pianeta nel Sistema Solare? Non proprio



Ha fatto rapidamente il giro del web e come al solito alcuni siti, anche importanti (per fortuna pochi), hanno cavalcato con grande entusiasmo la notizia appena diffusa ma l’hanno fatto, come solito, nel modo (o con tono) sbagliato.
La notizia riportata da alcune parti (evito di fare nomi) è la seguente: è stato scoperto un nuovo pianeta nel Sistema Solare, molto distante e almeno 10 volte più massiccio della Terra, in pratica una via di mezzo tra il nostro pianeta e il gigante gassoso Nettuno.
Detto in questi termini, però, l’annuncio trionfalistico è falso: non è stato scoperto nessun pianeta di questo tipo nel nostro Sistema Solare e con piacere noto che questa volta la gran parte dei mass media, soprattutto online, ha riportato la notizia in modo corretto.

La notizia in realtà è ben diversa da quanto è stato in più luoghi raccontato. Come faccio a saperlo? Sono il solito disfattista? Nient’affatto.
Quando si viene raggiunti da un annuncio scientifico, a maggior ragione se sembra incredibile, occorre sempre fare un minimo lavoro di ricerca e risalire alla fonte primaria. La cosa positiva è che tutte le scoperte scientifiche vengono pubblicate, con calcoli/osservazioni/dimostrazioni convincenti su riviste specializzate che passano al setaccio l’articolo prima che venga pubblicato per vedere se contiene errori, inesattezze o veri e propri strafalcioni. In pratica, questo evita la pubblicazione di bufale, il ché, nell’anarchia informativa di internet, è una bellissima cosa.

Nel nostro caso, la fonte primaria è un interessante articolo di Batygin e Brown, del Caltech (California Istitute of Technology) pubblicato sull’Astronomical Journal e disponibile a tutti per la lettura a questo link.
Bene, ora che abbiamo a disposizione la fonte a cui si riferiscono tutte le notizie lette e sentite possiamo spendere mezz’ora del nostro tempo e leggere le 12 pagine per capire di cosa veramente si parla. Se vi fidate del sottoscritto vi faccio un piccolo e semplificato riassunto, così vi risparmio del tempo e un mal di testa assicurato nel cercare di decifrare quanto detto dai ricercatori; alla fine è proprio questo il ruolo di un divulgatore.

Bene, iniziamo dalla conclusione, poi risaliremo la china: non è stato scoperto alcun nuovo pianeta. Lo studio dei due ricercatori è meramente teorico; non è stato fisicamente osservato alcun nuovo pianeta. Sebbene quindi l’approccio sia puramente fisico-matematico, è comunque interessante e insieme possiamo cercare di capire meglio la situazione.

Negli ultimi anni si sono continuati a scoprire nuovi corpi celesti remoti. Molti di questi fanno parte della grande famiglia chiamata fascia di Kuiper (detti KBO, Kuiper Belt Objects): un serbatoio di oggetti ghiacciati, delle vere e proprie potenziali comete giganti, il cui capostipite è Plutone. Altri corpi celesti sono ancora più interessanti perché sembrano essere un collegamento tra la fascia di Kuiper e il gigantesco alone che circonda tutto il Sistema Solare, fino a oltre un anno luce di distanza, chiamato nube di Oort. Il capostipite di questi oggetti è Sedna, un corpo celeste alquanto misterioso che ha un’orbita molto allungata che lo porta fino a quasi 146 miliardi di km dal Sole.

Il numero crescente di corpi celesti, in particolare di nuovi KBO, ha permesso ai ricercatori del Caltech di cominciare a fare uno studio statistico approfondito sulle loro proprietà orbitali. In pratica hanno tracciato le orbite di tutti questi corpi celesti e hanno cercato di capire se ci fosse qualcosa che li accomunasse. Con un po’ di sorpresa hanno scoperto che i corpi della fascia di Kuiper finora conosciuti tendono ad avere un’orientazione delle orbite concentrata attorno ad alcuni valori particolari. Poiché la fascia di Kuiper si pensa essere costituita da milioni di corpi celesti che possiedono orbite differenti e che non dovrebbero avere alcun collegamento le une alle altre, il fatto che invece queste sembrano avere delle proprietà comuni ha fatto venire più di un sospetto. Inoltre, Batygin e Brown hanno scoperto (e dimostrato) che non solo questi corpi celesti hanno orbite con orientazioni simili ma non sono neanche disposti in modo uniforme nello spazio, preferendo raggrupparsi in determinate regioni. Insomma, i KBO, come gli esseri umani, preferiscono stare in gruppi. Se per noi è una cosa normale, per degli oggetti grandi decine o centinaia di chilometri, non dotati di cervello, non è scontato, anzi.
Calcoli alla mano, infatti, la probabilità che questi corpi celesti abbiano assunto in modo casuale questa disposizione orbitale è dello 0.007%. Esagerando un po', in pratica è come mischiare un mazzo di 52 carte e sperare che casualmente queste si dispongano tutte in fila: difficile, molto difficile. Se quindi dovessimo trovare un mazzo in cui tutte le carte fossero messe in ordine crescente e divise per semi, cosa ci verrebbe da pensare? Che non c’entra il caso: qualcuno le ha ordinate di proposito.

A una conclusione del genere sono arrivati i due ricercatori del Caltech: qualcosa, molto probabilmente, ha ordinato le orbite altrimenti disordinate degli oggetti della fascia di Kuiper.
Bene, chi è stato a mettere ordine in questa remota stanza del Sistema Solare e a mantenerlo per miliardi di anni? Dopo complesse simulazioni al computer,  Batygin e Brown sono arrivati a una possibile soluzione. Se si inserisce nel Sistema Solare esterno un pianeta 10 volte più massiccio della Terra e lo si colloca nella giusta orbita, questo può svolgere la mansione che mia madre, per 19 lunghi anni, ha sperato io facessi con la mia stanza.
Da qui la previsione, del tutto teorica, che nella periferia del Sistema Solare potrebbe trovarsi un altro pianeta, che è sfuggito a tutte le osservazioni fatte fino a questo momento. Tra tutti gli scenari esplorati, questo sembra essere quello che, sulla base delle attuali conoscenze delle periferie del Sistema Solare, appare più probabile.

Come potete vedere, la scoperta trionfale con cui è stato annunciato il nuovo corpo celeste si è ridimensionata, anche se lo studio effettuato è molto intrigante e non fa che confermare le sensazioni di molti planetologi. Il nuovo pianeta spiegherebbe in modo naturale il flusso di nuove comete dalla nube di Oort, il comportamento bizzarro delle orbite di Sedna e della famiglia che si porta appresso e anche la presenza di alcuni oggetti della fascia di Kuiper con orbite fortemente inclinate. Insomma, mettendo ad hoc un pianeta con queste caratteristiche per giustificare l’allineamento orbitale degli oggetti della fascia di Kuiper, molte delle anomalie presenti e passate dei corpi celesti remoti si spiegherebbero in modo relativamente semplice. Naturalmente, tra l’ipotizzare qualcosa che riesce a spiegare delle anomalie di un gruppo di oggetti che conosciamo a malapena (e a cui mancano ancora migliaia, se non milioni, di corpi all’appello) e parlare di scoperta c’è di mezzo il metodo scientifico, ovvero l’osservazione di questo fantomatico pianeta. Sono gli stessi Batygin e Brown a concludere il loro articolo con una chiamata alle armi, come per dire: “Signori, questi sono i nostri calcoli, ora cerchiamo il pianeta e vediamo se c’è o no”.

Il pianeta ipotizzato potrebbe essere una superterra, un oggetto che si pensa sia una via di mezzo tra un corpo roccioso e un pianeta gassoso. Di superterre ne conosciamo diverse in altri sistemi stellari ma non abbiamo idea delle loro caratteristiche perché non ne abbiamo a disposizione (a questo punto FORSE) nel Sistema Solare.
Un simile oggetto non dovrebbe essere difficile da rivelare con i moderni grandi telescopi date le sue, ipotetiche, generose dimensioni e un’orbita che non dovrebbe essere troppo diversa da altri, remoti KBO (e qui lancio un dubbio che tra poco proverò a spiegare: abbiamo scoperto oggetti di qualche centinaio di km di diametro con un'orbita simile, come ha fatto a sfuggire un pianeta che risulterebbe migliaia di volte più brillante?). Il grosso problema sarà riconoscerlo tra le milioni di stelle del cielo. Come si fa infatti a distinguere una stella da un pianeta tanto lontano che risulterebbe sempre un punto indistinto? L’unico modo è osservarlo per un intervallo di tempo sufficientemente lungo e rivelare il lento moto attraverso le stelle, segno che si tratta di un corpo celeste molto più vicino che orbita attorno al Sole. Il problema è che questo pianeta, se davvero esistesse, si troverebbe così lontano dal Sole che si muoverebbe molto, molto lentamente nel cielo. La scienza moderna, purtroppo, non ama le osservazioni prolungate nel tempo e senza la minima garanzia di successo, perché di mezzo ci sono gli esseri umani e la smania di produrre risultati per ottenere (o continuare a mantenere) preziose risorse economiche.
L’ipotetico pianeta potrebbe avere un’inclinazione orbitale elevata, quindi disporsi un po’ ovunque nel cielo (e il cielo è grande!), oppure, a causa della forte eccentricità orbitale, potrebbe trovarsi nel punto più lontano dal Sole, a centinaia (o migliaia) di miliardi chilometri dal Sole e risultare molto debole. Resta ancora l’alternativa che il pianeta non è stato trovato fino a questo momento perché semplicemente non c’è.
Qualunque sia la verità, si è riaperto in modo fragoroso un interessante campo della ricerca. Con l’articolo di Batygin e Brown sono sicuro che a molti planetologi verrà la curiosità di approfondire la questione e molti enti di ricerca saranno di certo più propensi ad accettare una campagna osservativa di lunga durata, la cui posta in gioco ora sembra più concreta rispetto a qualche giorno fa.

lunedì 18 gennaio 2016

La supernova più luminosa della storia

Le supernovae sono gli eventi più violenti dell'Universo, secondi solo all'energia rilasciata nel momento del Big Bang. La loro luminosità è così elevata che possono essere osservate letteralmente fino ai confini dell'Universo, a miliardi di anni luce di distanza.


Nell'Universo che conosciamo esistono due classi distinte di supernovae. Una stella può infatti esplodere in modo “naturale” se ha una massa superiore a 8 volte quella del Sole e si trova, dopo poche decine di milioni di anni, a corto del prezioso combustibile che le serve per mantenersi in vita contro lo strapotere della forza di gravità. Tutte le stelle con massa superiore alle 8 volte quella del nostro Sole termineranno la propria vita in questo modo, diventando supernovae di tipo II.
Tuttavia, questo non è l'unico modo che la Natura si è inventata per creare le bombe più potenti dell'Universo. Anche una nana bianca può diventare una supernova, se disturbata nel modo giusto. Chiamate supernovae di tipo Ia, queste sono tra le esplosioni più potenti che si conoscono. Una piccola nana bianca, stadio finale di tutte le stelle con massa compresa tra 0.5 e 8 masse solari, è un oggetto molto compresso, delle dimensioni tipiche della Terra, composto in gran parte da carbonio e ossigeno, e molto caldo. Questi veri e propri tizzoni ardenti, che si spengono lentamente nel corso della storia dell'Universo (non possiedono infatti alcun meccanismo di produzione dell'energia), sono in realtà delle silenziose polveriere pronte a esplodere se innescate nel modo giusto. Il disturbo perfetto può essere dovuto a una stella nelle vicinanze, magari legata in modo gravitazionale, che a un certo punto inizia a crescere diventando una gigante rossa a causa della sua avanzata età. Nell'espandere i suoi strati esterni di milioni di chilometri, può arrivare nella zona in cui prevale la forza di gravità della piccola nana bianca. Il risultato è spettacolare: miliardi di tonnellate di gas vengono risucchiate ogni secondo dalla piccola e vorace nana bianca, come se fosse un gigantesco aspirapolvere cosmico. Se la quantità di gas è giusta (non troppo e non troppo poco), quando sulla superficie si accumula abbastanza elio da innescare i processi di fusione nucleare, si attiva di fatto una reazione a catena che fa esplodere tutta la nana bianca come la più grande e possente bomba termonucleare mai vista nell'Universo. 

Le esplosioni di supernova di tipo Ia sono violentissime, in media più di quelle di tipo II che avvengono invece a causa del collasso del nucleo stellare e successiva liberazione di una grande quantità di energia termica. Una supernova di tipo Ia ha una luminosità massima tipica dell'ordine di 5 miliardi di Soli. Sì, non è un refuso: l'esplosione termonucleare associata alle supernovae di tipo Ia arriva a liberare un'energia miliardi di volte superiore a quella che emette il Sole ogni secondo.

La curva d luce di ASASSN-15lh e la corrispondente luminosità
Se questo valore ci sembra esagerato, ora possiamo comprendere bene la natura mostruosa della supernova ASASSN-15lh, scoperta dalla rete di telescopi All Sky Automated Survey for SuperNova che opera nel deserto di Atacama, in Cile, e alla cui conferma e caratterizzazione hanno contribuito astrofisici di mezzo mondo, tra cui l'italiano Gianluca Masi, curatore e ideatore del progetto Virtual Telescope. Questa supernova, unica nella nostra storia, rappresenta l'evento più violento mai visto da un essere umano, che nel suo picco ha liberato l'energia corrispondente a oltre 500 miliardi di Soli, superando l'intera emissione della Via Lattea, che di stelle ne ha circa 200 miliardi!
ASASSN-15lh ha stracciato tutti i record delle precedenti supernovae finora osservate: 100 volte più brillante di una supernova di tipo Ia, oltre 1000 volte più luminosa delle normali supernovae di tipo II e quasi 5 volte più brillante della supernova iPTF13ajg, che deteneva il record.


Cosa ha generato questa immane esplosione? Le cose non sono ancora per niente chiare. La galassia che ha ospitato la supernova è molto più brillante della Via Lattea, si trova a qualche miliardo di anni luce di distanza e sembra piuttosto tranquilla. E qui già sorge il primo problema: le supernovae più brillanti si trovano in genere in galassie che mostrano un'elevata attività di formazione stellare, perché si pensa siano generate da oggetti peculiari come stelle di grandissima massa o giovani stelle di neutroni, che hanno una vita piuttosto breve e quindi si trovano in gran numero solo in sistemi stellari che si sono formati da poco o stanno ancora formandosi. Sorvolando sulle incongruenze dell'ambiente in cui è stata osservata, resta ancora il dubbio di chi abbia generato questa esplosione: tutti i modelli più esotici e violenti che cercano di giustificare una supernova di tale portata si trovano in difficooltà nello spiegare l'enorme output energetico osservato. I modelli che vanno per la maggiore per spiegare la classe delle supernove super luminose coinvolgono oggetti molto peculiari come le magnetar, stelle di neutroni molto giovani che per qualche motivo hanno un campo magnetico così forte da smagnetizzare la nostra carta di credito se si trovassero alla distanza della Luna (!). Tuttavia, neanche con tutta la buona volontà del mondo, sembra possibile raggiungere una tale energia.


È davvero una supernova? Stiamo sbagliando qualcosa? Queste sono forse le domande più appropriate che dovremmo farci (e che si sono già fatte gli autori della scoperta). C'è qualcosa che ci sfugge nell'interpretazione dell'origine di questo mostro cosmico? Probabilmente sì. L'unica cosa che si consoce con precisione è che la supernova non sembra contenere molte tracce di idrogeno e questo implica che l'esplosione è stata probabilmente di natura termonucleare su un oggetto che non ne conteneva in grandi quantità (come le nane bianche con le supernovae di tipo Ia). Il problema è che supernovae brillanti e povere di idrogeno fino a questo momento se ne sono osservate solo in piccole e deboli galassie nane.
Si conosce la distanza della galassia ospite e quindi si è stimata l'energia emessa a partire da quella osservata e indebolita dalla grandissima distanza. E questo potrebbe essere già un punto su cui approfondire, considerando anche le stranezze sull'ambiente in cui è avvenuta l'esplosione. E se la supernova osservata non fosse distante quanto la galassia alla quale sembra appartenere? Ovvero, se per qualche scherzo crudele tra noi e la galassia ci fosse un'altra galassia, perfettamente allineata e invisibile, magari proprio quelle galassie nane da dove abbiamo osservato, fino a questo momento, tutte le supernovae più luminose? Di colpo l'energia reale emessa crollerebbe di una quantità legata al quadrato dell'errore commesso nella determinazione della distanza e il mostro potrebbe diventare una supernova più normale.
C'è qualche ricercatore che si è addirittura chiesto se si sia effettivamente osservata una supernova e non magari un fenomeno di cannibalismo cosmoco, in particolare una stella di grande massa distrutta dall'enorme forza di gravità di un buco nero super massiccio, magari come quello che si pensa si nasconda all'interno della possibile galassia ospite.


Insomma, il 2016 è iniziato da poco ma già abbiamo il primo, intrigante, mistero e possiamo scommettere che sarà solo il primo di un'entusiasmante serie.


http://www.nature.com/news/brightest-ever-supernova-still-baffles-astronomers-1.19176#/ref-link-1


http://science.sciencemag.org/content/351/6270/257

giovedì 14 gennaio 2016

Le indiscrezioni sulle onde gravitazionali. C'è qualcosa di vero?



Tutti le cercano, da decine di anni ormai. Nessuno (o quasi) crede che non esistano ma fino a questo momento non se ne sono avute tracce dirette. Sono le ormai celebri onde gravitazionali, previste da Einstein nel 1916 nel suo trattato sulla relatività generale, tanto importanti per l’astrofisica quanto, in apparenza, sfuggenti.
Alcuni degli esperimenti più grandi, letteralmente, degli ultimi anni hanno coinvolto la costruzione di giganteschi e sofisticatissimi apparati per la rivelazione diretta delle onde gravitazionali.
Su questo campo di battaglia scientifico si contrappongono Americani ed Europei, con l’Italia in prima fila.
Gli esperimenti a terra coinvolgono due strutture sofisticatissime: da una parte l’esperimento americano LIGO, dall’altra quello europeo, su suolo italiano, VIRGO, che ora è gestito dal consorzio EGO. Se parliamo di spazio, l’Europa sembra avere una marcia in più perché lo scorso 3 Dicembre ha lanciato nello spazio la sonda LISA Pathfinder, precursore della missione eLISA che rappresenterà l’esperimento su scala più grande mai portato avanti, sviluppandosi su tre lati di un triangolo estesi per ben 5 milioni di chilometri. 


VIRGO e LIGO, per ora gli esperimenti con maggiori possibilità di rivelazione, si stanno dando battaglia da più di 10 anni ma il debole segnale delle onde gravitazionali non è stato ancora rivelato.
Le cose, tuttavia, potrebbero presto cambiare.
Nella realtà e soprattutto nella scienza, una notizia è tale solo se è verificabile e spiegata (calcoli alla mano) con grande dettaglio. Tutto il resto sono pettegolezzi o, usando un termine più soft preso in prestito dalla lingua inglese, rumors, ovvero voci.
Di solito non mi occupo mai di riportare voci di corridoio, ma questa volta faccio un’eccezione perché le voci sembrano provenire da fonti indipendenti e si rincorrono ormai da diverse settimane.

Circa un mese fa, poco prima della partenza di LISA Pathfinder, alcune fonti italiane direttamente coinvolte nella ricerca di onde gravitazionali mi hanno confidato che qualcosa di importante stava accadendo. Si vociferava, in via del tutto confidenziale, non di una ma di ben due possibili rivelazioni, che avrebbero dovuto essere sottoposte a tutte le numerose verifiche del caso e che l’operazione avrebbe richiesto diverse settimane, se non mesi. Ricordo nitidamente i sorrisi soddisfatti mal celati e le parole che avrebbero voluto fluire come un fiume in piena ma che non potevano per mille ragioni, tutte condivisibili. Non riuscii a ottenere più informazioni e anche se ci fossi riuscito l’etica professionale e il rispetto per chi ha dedicato una vita a questi studi mi avrebbero impedito di dire più di quanto sto dicendo ora.

Un paio di giorni fa il cosmologo e autore Lawrence M. Krauss, una persona che ha sicuramente contatti più vasti dei miei, ha riportato le stesse indiscrezioni che arrivarono a me più di un mese fa. Se è vero che sui pettegolezzi non ci si può costruire una storia vera, questa volta potrebbe esserci davvero qualcosa sotto: quando infatti trapelano due indiscrezioni identiche e indipendenti, a distanza temporale di oltre un mese, separate da decine di migliaia di chilometri ed entrambe originatesi da ricercatori che lavorano nel campo, qualcosa sotto di concreto potrebbe esserci davvero.

Perché tanto fermento? Perché sta nascendo una storia degna dei gossip che di solito non orbitano attorno a questioni di fisica ma sono più tipici di situazioni di ben più bassa caratura culturale?
Perché rivelare le onde gravitazionali vorrebbe dire scrivere una pagina importantissima per la fisica e l’astrofisica e come minimo assicurerebbe il premio nobel al gruppo che ci riuscirà per primo. Sarebbe anche il giusto coronamento a uno sforzo tecnologico, scientifico ed economico che nella scienza ha pochi precedenti, e allo stesso tempo rappresenterebbe una spettacolare prospettiva per indagare i tanti fenomeni ancora oscuri dell’Universo. Insomma, rivelare le onde gravitazionali avrebbe la stessa portata di quello che successe con l’invenzione del cannocchiale e l’inizio delle osservazioni astronomiche: oltre 400 anni di enorme sviluppo scientifico e, di conseguenza, anche tecnologico.

Il mio ruolo impone estrema prudenza. Il fatto che le voci di corridoio sembrino convergere verso un esito positivo è una buona notizia, ma non c'è altro su cui basarci. Avendo parlato con i ricercatori e avendo visto le loro espressioni, la mia sensazione è che LIGO, che recentemente è stato reso più potente, abbia effettivamente rivelato qualcosa per la prima volta e ora si stia cercando di capire, con estrema calma e razionalità, se quei segnali possano essere associati davvero alle onde gravitazionali. C'è però anche un'altra interpretazione possibile: la spietata concorrenza tra americani ed europei, che potrebbe alzare i toni dello "scontro" con la creazione di rumors falsi ad hoc per destabilizzare il concorrente. Il consiglio, quindi, è di stare con i piedi ben piantati per terra. Vale la pena ricordare che affermazioni straordinarie richiedono prove altrettanto straordinarie e straordinariamente solide. Nella storia recente clamoroso è stato, ad esempio, il dietrofront del gruppo di ricerca italiano che affermò di avere scoperto che alcuni neutrini viaggiavano più veloci della luce. Alla fine si scoprì che era stato un problema con la sincronizzazione dei temporizzatori dei computer e i neutrini tornarono a obbedire alla teoria della relatività speciale (per fortuna!). Quando si utilizzano strumenti complicatissimi e ci si spinge verso limiti che nessun essere umano ha mai affrontato, la possibilità di sbagliare si fa sempre più forte perché non si conoscono ancora gli eventuali problemi ed errori che potrebbero sorgere. E d’altra parte non potrebbe essere altrimenti: qualsiasi esploratore, per definizione, sonda territori mai esplorati e non è detto che sul suo percorso possa incontrare solo ciò che si aspetterebbe di vedere, anzi, la sua bravura è proprio quella di riuscire a capire le sconosciute trappole che inevitabilmente incontrerà sul suo cammino. 

La fretta, nella scienza, è sempre una pessima consigliera e noi dobbiamo essere assolutamente sicuri delle affermazioni che facciamo. Per ora, quindi, prendiamo questi rumors come l’antipasto di qualcosa, di una scoperta epocale per la scienza, che prima o poi arriverà. Potrebbe non essere questa volta, ma è comunque inevitabile, almeno finché esisterà un gruppo di sognatori che porterà i propri sguardi e i propri desideri nell’immensità dello spazio che ci circonda.


 Un piccolo approfondimento sulle onde gravitazionali
 Nel 1916, proprio cento anni fa, Albert Einstein terminò la stesura della teoria della relatività generale, a completamento di un lavoro iniziato oltre 10 anni prima con l’enunciazione della teoria della relatività speciale. La complessità dell’argomento non mi permette di trattarlo in queste pagine, dedicate invece alla sfida, tutta tecnologica, nel rivelare un particolare tipo di onde previste da Einstein, ma ancora mai osservate direttamente a causa di evidenti limiti tecnologici.
La ricerca delle onde gravitazionali è uno dei campi dell’astrofisica su cui si sono investite maggiori risorse, la cui scoperta potrebbe rivoluzionare e migliorare moltissimo le nostre conoscenze dell’Universo.



Che cos’è un’onda gravitazionale? Immaginiamo di prendere un oggetto molto massiccio, concentrato e totalmente neutro, come una stella di neutroni, e di farlo oscillare attorno a una posizione di equilibrio, avanti e indietro con un certo periodo. Poniamoci in un punto qualsiasi dello spazio e cerchiamo di misurare il campo gravitazionale prodotto da questo oggetto che oscilla.

L’oscillazione della stella di neutroni produce delle variazioni periodiche del campo gravitazionale con una frequenza uguale a quella dell’oscillazione. In altre parole, poiché il campo dipende dalla distanza, se questa varia nel tempo perché la sorgente oscilla, il mio rivelatore misurerà un’intensità che varierà nel tempo. L’informazione su come varia il campo gravitazionale si propaga, dice Einstein, alla velocità della luce. Quindi, forse ci siamo convinti che in un punto fissato dello spazio un osservatore noterà che i valori del campo gravitazionale della sorgente cambiano in modo periodico nel tempo. Abbiamo effettivamente trovato un modo per generare un’onda gravitazionale. Siamo arrivati, senza formule ma con un semplice ragionamento, a uno dei concetti più importanti della fisica e dell’astrofisica contemporanea: la variazione di un campo gravitazionale dà vita a un’onda gravitazionale.


Dove troviamo un’onda gravitazionale? La ricerca delle onde gravitazionali è in corso sin dagli anni 60, ma fino a ora, oltre a qualche prova indiretta, non si è mai trovata la cosiddetta “pistola fumante”, ovvero non si è mai misurata un’onda gravitazionale direttamente. Qual è il motivo di queste difficoltà tecniche? Sostanzialmente la grande debolezza della forza di gravità, mille miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di volte più debole della forza elettromagnetica, quella che genera le onde elettromagnetiche. In effetti diventa impossibile costruire in laboratorio oggetti abbastanza massicci da produrre un campo gravitazionale talmente forte da generare onde gravitazionali misurabili dagli attuali strumenti. Molto più semplice risulta studiare quella moltitudine di fenomeni violenti ed esotici continuamente prodotti dall’Universo.
Quali possono essere questi fenomeni? Candidati ideali per questo scopo sono i sistemi doppi estremamente stretti, magari formati da stelle esotiche, come le pulsar, o da buchi neri, oppure l’esplosione di stelle come supernovae e la conseguente creazione di stelle di neutroni o buchi neri.

Come si rivelano le onde gravitazionali? Per capire come “catturarle” dobbiamo comprendere che effetto producono, perché la cosa non è per niente semplice da accettare. Le onde gravitazionali non sono altro che increspature in questa rete chiamata spazio-tempo che permea tutto l’Universo e si propagano alla velocità della luce. Un’analogia perfettamente calzante si può fare considerando cosa succede quando siamo immersi in uno specchio d’acqua calmo (un lago). Se siamo immobili la superficie dell’acqua è ferma; quando cominciamo a muoverci, l’informazione del nostro movimento si propaga attraverso lo specchio d’acqua con la comparsa di increspature superficiali, tanto che questo è il meccanismo con cui i pesci percepiscono la nostra presenza. Sembra quindi impossibile, ma le onde gravitazionali possono essere pensate in modo simile: quando qualcosa disturba il tessuto spazio-temporale, le informazioni del nuovo assetto si propagano come un’onda gravitazionale. Consideriamo ancora lo specchio d’acqua nel quale siamo immersi e disseminiamolo di una decina di piccole palline di polistirolo poste alla stessa distanza le une dalle altre. Adesso muoviamoci in modo che si creino onde in superficie e osserviamo cosa succede alle palline: le oscillazioni che compiono fanno variare inevitabilmente la loro distanza relativa.
Sebbene con qualche dovuto distinguo, le onde gravitazionali producono un effetto simile: increspando lo spazio-tempo come la superficie di un lago, quindi fanno inevitabilmente variare la distanza tra due oggetti fermi gli uni rispetto agli altri. State tranquilli, lo spostamento prodotto da un’onda gravitazionale è infinitesimo, dell’ordine di 10-21 metri per uno spazio tipico di un metro, un milione di volte inferiore alle dimensioni di un protone! E’ qui la sfida, tutta tecnologica, nel rivelare questo tipo di onde, ed è proprio in questo ambito che si può ammirare con estremo stupore il genio dell’essere umano, in grado di concepire macchinari veramente fantascientifici.
 

Rivelazione delle onde gravitazionali: l'interferometro. Un raggio di luce monocromatico viene diviso in due direzioni, una perpendicolare all'altra e poi ricomposto dopo aver percorso la stessa distanza. Se la distanza è identica, le onde elettromagnetiche quando si ricompongono saranno in fase e si sommeranno. Se la distanza varia in una direzione a causa del passaggio di un'onda gravitazionale, le onde associate ai due fasci di luce non saranno più in fase perché un raggio avrà fatto leggermente più strada dell'altro. In questo caso la luce risultante avrà quindi un'intensità minore di quando invece i due raggi erano in perfetta fase. Un apparato del genere può rivelare spostamenti molto piccoli, dell'ordine della lunghezza d'onda della luce che si è utilizzata per creare i fasci luminosi, ma è anche estremamente sensibile a tutti gli effetti ambientali.

martedì 12 gennaio 2016

Come si misura la velocità dei corpi celesti?

Sembra incredibile, ma in astronomia la misura delle velocità con cui ruotano e si muovono gli oggetti può essere determinata con grandissima precisione, soprattutto se confrontata con la bestia nera di ogni astronomo: la stima delle distanze. Una particolare proprietà delle onde, tra cui le onde elettromagnetiche, consente infatti una rapida misura delle velocità, almeno della componente diretta verso di noi, detta velocità radiale.

Questa proprietà delle onde è chiamata effetto Doppler ed è sfruttata, purtroppo, anche dalle forze dell’ordine per misurare la velocità delle nostre auto da centinaia di metri di distanza.
L’esempio classico per comprendere questo effetto è quello della sirena di un’ambulanza. Quando il veicolo si avvicina verso di noi il suono è decisamente acuto. Nel momento in cui ci sorpassa e poi si allontana, la tonalità percepita cambia radicalmente, diventando nettamente più grave.
Questo è l’effetto Doppler: la frequenza, o la lunghezza d’onda, di qualsiasi onda varia a seconda della velocità relativa tra l’osservatore e la sorgente.
Con la luce e tutte le radiazioni elettromagnetiche succede la stessa cosa, solamente che al posto di sentire dei suoni vediamo diversi colori. Quando una sorgente luminosa si avvicina a noi, la sua luce appare più blu di quanto non lo sia in realtà. Gli astronomi lo chiamano blueshift, ovvero spostamento verso il blu. Quando l’oggetto si allontana da noi (o iamo noi ad allontanarci, la velocità è sempre relativa!), la sua luce si sposta verso colori tendenti al rosso e per questo motivo si parla di redshift.
A livello fisico un cambio di colorazione è associato con uno spostamento dell’intera emissione verso lunghezze d’onda più corte (bluesfhift) o lunghe (redshift), visto che la lunghezza d’onda determina il colore percepito della luce osservata. 
Lo spostamento, naturalmente, è tanto più evidente quanto maggiore è la velocità tra l’osservatore e la sorgente considerata. Ecco quindi che dallo studio dello spettro degli oggetti, ovvero della distribuzione della luce in funzione della lunghezza d’onda, possiamo cogliere qualsiasi piccolo spostamento rispetto a uno spettro campione che si trova fermo rispetto a noi. Di conseguenza, attraverso una semplice formula fisica è possibile ricavare immediatamente la velocità dell’oggetto!

Naturalmente le cose non sono così semplici nella realtà. Ottenere degli spettri chiari e ben leggibili è possibile solamente con sorgenti luminose o apparati enormi ed estremamente costosi. Negli spettri, poi, occorre riconoscere delle righe in emissione o in assorbimento e capire quali elementi le hanno prodotte. Difficoltà tecniche a parte, se riusciamo a identificare una riga di un elemento conosciuto nello spettro dell'oggetto che stiamo studiando, basta annotarne la lunghezza d'onda e confrontarla con la riga prodotta dallo stesso elemento (ad esempio l'idrogeno) di un campione posto qui sulla Terra. A questo punto la velocità radiale con cui l'oggetto si muove rispetto a noi è data da:
vr = (λoss – λlab)/λlab ∙ c 
 dove c = velocità della luce. 
Poi, però, c’è la fase interpretativa. Si, perché attraverso l’effetto Doppler catturiamo insieme tutti i moti della sorgente: quello della rotazione della Terra attorno al proprio asse, della rivoluzione attorno al Sole, del movimento del Sole nella Galassia, oltre ai movimenti della sorgente stessa. La difficoltà maggiore è quindi quella di separare i diversi contributi osservati, in particolare quelli dovuti al nostro pianeta. 

Nel caso della misura delle velocità di rotazione la separazione dei diversi contributi è semplice, perché un oggetto in rotazione è simmetrico: una parte si allontana e l'altra si avicina a noi, con il centro che in teoria dovrebbe avere rotazione nulla.

venerdì 8 gennaio 2016

Quali sono le galassie più vicine?

La galassia sicuramente più vicina è la Via Lattea, visto che ne siamo immersi!
Parlando di oggetti esterni, le galassie a noi più vicine sono sicuramente i satelliti della Via Lattea. Certo, perché come i pianeti hanno satelliti e le stelle i pianeti, anche le galassie possiedono i propri satelliti, costituiti da piccole galassie ellittiche o dalla forma irregolare.
Il gruppo locale
Attualmente sono noti 11 compagni della Via Lattea. I più conosciuti sono senza dubbio le nubi di Magellano, due galassie irregolari ben visibili a occhio nudo dai cieli australi. Ma il satellite più vicino è la galassia nana del Cane Maggiore, un oggetto molto debole, scoperto solamente pochi anni fa, contenente non più di un miliardo di stelle, che orbita a circa 25.000 anni luce dalla Terra e a 42.000 anni luce dal centro della Via Lattea.Le nubi di Magellano, invece, si trovano tra i 150 e i 200 mila anni luce dal centro. 

Al di fuori dell’abbraccio gravitazionale della Via Lattea, la prima galassia che incontriamo è un gigante dei cieli: la galassia di Andromeda. Nelle notti scure è ben visibile a occhio nudo come una macchia lattiginosa visibilmente allungata nell’omonima costellazione ed è (quasi) l’oggetto più lontano visibile a occhio nudo. La distanza della galassia di Andromeda è stimata in 2,3 milioni di anni luce, un valore davvero impressionante, soprattutto se si pensa che è la più vicina! Poco più grande della Via Lattea, è una delle galassie a spirale più grandi che si conoscano, contenente oltre 400 miliardi di stelle.

Poco più lontano, in una direzione non troppo diversa, la galassia M33, nella costellazione del Triangolo, a 2,5 milioni di anni luce, è la seconda più vicina dopo Andromeda. Anche questa è una spirale, ma è circa la metà della Via Lattea. Gli occhi più allenati, in compagnia dei cieli più scuri, riescono a percepire senza alcuno strumento la sua debole luminosità.

Entro un raggio di pochi milioni di anni luce troviamo in realtà qualche decina di galassie, tutte molto più piccole della Via Lattea e di Andromeda. Queste fanno parte di un raggruppamento chiamato gruppo locale, tenuto insieme dalla forza di gravità e in cui le regole vengono dettate dalle due giganti: Andromeda e la Via Lattea.

martedì 5 gennaio 2016

Dove si trovano i confini del Sistema Solare?

La risposta a questa domanda non è scontata come potrebbe sembrare.
Cosa si intende, in effetti, per confini del Sistema Solare? Se ci riferiamo al corpo celeste più lontano che orbita intorno al Sole, la risposta non può essere data in modo preciso. Nella prima metà del diciannovesimo secolo due astronomi, l’estone Ernst Öpik e l’olandese Jan Hendrik Oort, in modo del tutto indipendente, arrivarono a teorizzare che l’intero Sistema Solare potrebbe essere avvolto da una gigantesca nube composta da miliardi di piccoli corpi ghiacciati che orbitano attorno al Sole a distanza di migliaia di miliardi di chilometri.La nube di Öpik-Oort è un’ipotesi ormai largamente accettata dalla comunità astronomica, sebbene non sia mai stato osservato alcun corpo celeste in queste remote regioni. La sua esistenza, tuttavia, è giustificata dal fatto che ogni anno sono diverse decine le nuove comete che appaiono per la prima volta nelle regioni interne del Sistema Solare.
La creazione di nuove comete si giustifica solamente con la presenza di un’immensa riserva giacente in zone estremamente lontane dal Sole. A causa delle interazioni reciproche è possibile che qualche corpo cambi orbita e si getti nelle regioni interne del Sistema Solare. A una certa distanza dal Sole i composti ghiacciati di cui è composto cominciano ad evaporare generando la magnifica coda di una cometa.

Secondo le più recenti teorie, gli oggetti della nube di Oort si possono trovare fino a circa 2 anni luce di distanza dal Sole, vale a dire a qualcosa come 19 mila miliardi di chilometri, contro gli appena 4,5 miliardi del pianeta più lontano, Nettuno.
Il Sistema Solare è quindi molto più esteso di quanto si possa pensare secondo questa definizione. Questo non deve stupire perché la forza di gravità di un oggetto massiccio come il Sole può essere sentita anche a distanze enormi. Probabilmente la presenza di stelle più massicce nelle immediate vicinanze, nel presente e soprattutto nel passato, ha letteralmente troncato il folto gruppo di remoti corpi celesti che ci portavamo appresso.

Ma i confini del Sistema Solare possono essere definiti anche in altro modo. In effetti, considerare il corpo più lontano come ultimo baluardo del Sistema Solare non appare una definizione del tutto oggettiva, se non altro perché altri agenti esterni, come altre stelle, possono apportare importanti modifiche.
Per questo motivo gli astronomi identificano in un altro modo i confini del Sistema Solare, secondo una definizione molto più oggettiva.
Il Sole non emette solamente una grande quantità di luce, o radiazione elettromagnetica, ma anche moltissime particelle cariche, accompagnate da un forte campo magnetico. L’attività solare continuativa nel tempo produce una vera e propria bolla che protegge i pianeti dai pericoli dello spazio interstellare, tra cui particelle cariche, polveri e gas. 

Gli astronomi considerano più valida dal punto di vista fisico e astronomico la definizione secondo cui i confini del Sistema Solare sono identificati dalla sfera di influenza del Sole sullo spazio interstellare. Questa vera e propria bolla, che sarebbe visibile anche dall’esterno, si estende attorno alla nostra stella fino a una distanza di circa 100 unità astronomiche, ovvero 15 miliardi di chilometri.Oltre questa distanza l’influenza del Sole cessa, lasciando il posto a particelle e gas provenienti da altre stelle e dal centro della Galassia. Per quanto detto, oltre questa distanza vi sono i miliardi di piccoli corpi celesti dell’ipotetica nube di Oort, il cui unico legame con il Sistema Solare è dato però solamente dalla forza di gravità.
L’ambiente di quelle remote regioni dovrebbe essere molto diverso e più pericoloso dello spazio all’interno della bolla solare; ma questo ce lo dirà, speriamo, Voyager 2, la sonda immortale che ha superato queste colonne d'ercole dei nostri tempi.

venerdì 1 gennaio 2016

Buon anno con un nuovo libro in offerta per due giorni

Per augurare a tutti i miei lettori un buon 2016, propongo in offerta a soli 1,99 euro (a meno Amazon non me lo fa vendere) per due giorni la versione ebook del mio nuovo libro: "Best of 2015, un anno di Universo".

Il 2015 è stato un anno ricco di scoperte e conquiste astronomiche e per celebrarlo al meglio ho deciso di raccogliere alcuni tra i miei post scritti su questo blog, arricchire il tutto con altri capitoli inediti e fare così una panoramica sugli eventi astronomici più importanti che ci hanno accompagnato nell'anno appena passato e quelli che ci aspettano nel 2016.

Abbiamo scoperto un pianeta molto simile alla Terra e capito che molto probabilmente non siamo soli nell’Universo. Abbiamo scoperto acqua liquida su Marte e possenti sorgenti termali su Encelado. Abbiamo fatto la storia con il lancio del primo razzo riutilizzabile che è atterrato da solo dopo aver inviato il carico che conteneva nell’orbita terrestre. Abbiamo esplorato e scoperto cose che un anno prima non conoscevamo e ci siamo arricchiti di esperienze e avventure che contribuiranno a rendere migliori le nostre vite. Perché la scienza, in particolare l’astronomia, è la migliore risposta che potremmo mai avere a tutti i nostri problemi, grandi o piccoli che siano. Ricordiamoci sempre di guardare le stelle, anche e soprattutto nei momenti più bui della nostra storia.

Il libro lo troverete in offerta a prezzo scontato solo il 1 e il 2 Gennaio 2016, dopodiché sarà disponibile al prezzo di 2,99 euro. Per chi ha invece un abbonamento Kindle Unlimited questo libro sarà gratis per sempre.
Il libro può essere letto da ogni dispositivo digitale dotato dell'applicazione di lettura Kindle gratuita disponibile sul sito di Amazon o nei diversi store del proprio sistema operativo/telefono.
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Tra 4-5 giorni sarà disponibile anche la versione cartacea, al prezzo di circa 11 euro. 
 
Buon anno a tutti!